Per accusare il premier vale tutto, a patto di avere «senso storico»

Caro Granzotto: bordello! La misura è colma. Come si permettono i magistrati di definire l'abitazione del presidente del consiglio un bordello? Siamo impazziti?
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In senso storico, caro Di Francesco. I pubblici ministeri Antonio Sangermano e Pietro Forno ci tengono a precisarlo: bordello come riferimento storico. Cosa cambi, poi, non si sa. Mettiamo ch’io dia del cretino - faccio una ipotesi, perché è ovvio che nella realtà non mi permetterei mai - a un magistrato. E che alla sua prevedibile reazione («Come si permette!», «Lei non sa chi sono io!», «La denuncio per oltraggio!» eccetera) io replichi: «Ma guardi che le ho dato del cretino in senso storico, rifacendomi cioè alla storia della cretineria». Basterebbe per fargli sbollire ira e indignazione? Per non sentirsi offeso? Per chiudere la faccenda con un: «Ah, quand’è così, vabbé...»? Ma lasciamo perdere le astrazioni e veniamo alle cose concrete e cioè alla storicizzazione del nostro bel bordello. Volta a definire, così si legge, la divisione dei ruoli all’interno dei bordelli medesimi. Ruoli, mansioni che avrebbero ricoperto, chi per un verso e chi per l’altro, i rinviati a giudizio Emilio Fede, Lele Mora e signora Nicole Minetti. Ma allora ci risiamo: se i tre, sempre secondo l’accusa, poi si vedrà, gestivano in pratica un bordello, hai voglia a dichiarare che il famoso riferimento «non era inteso a definire Arcore come un bordello». Valli a capire, i magistrati. Che poi, si fa presto a dire bordello. Ora non voglio sembrare un nostalgico di quando l’Italia tollerava, ma nel così detto immaginario collettivo (di quanti il 20 settembre 1958 - giorno, mese e anno dell’entrata in vigore della Legge Merlin, pace all’anima sua - avevano più di diciott’anni) il bordello è raffigurato come luogo scicchissimo, tutto un velluto e un damasco, tutto cristalli, argenti e quadri pompier raffiguranti harem con rosee bellezze intente ai lavacri. Quando non così, s’impone la versione più casalinga, felliniana: la «quindicina», la maîtresse che intima di non fare flanella, le «signorine» - Adua, la Francesina, Wanda... - che lasciavano sì indovinare una certa padronanza del mestiere, ma anche la consuetudine a tirare la sfoglia. Non quindi la fosca visione dell’accusa, l’atmosfera torbida, un po’ truce del futoir, con le sue penombre, i suoi afrori, la sua mala vita. I suoi volti sfatti dal vizio, tanto per calcare un po’ la mano. E poi, visto che per chiamata diretta dei piemme, sull’argomento incombe la storia, facciamola un po’ di storia. Vorrà pur dire qualcosa che da subito, da quando l’importammo dal francese dei trobadours, bordello fu anche sinonimo - il Vocabolario della Crusca lo attesta - di chiasso, di spensierata, allegra confusione. «Fare il bordello» - carta cruscante canta - «vale per far baie, scherzare». Insomma, per farla breve a bordellare forse si commette peccato - non certo un crimine - in un’atmosfera festante e galante.

La stessa, provare per credere, che si respira nei salotti e nelle terrazze romane, luoghi deputati agli informali incontri del fior fiore della società civile e politica, dei meglio fichi del bigoncio intellettuale e che per stessa ammissione degli anfitrioni e degli ospiti, si risolvono sempre nel solito bordello. Appunto.
Paolo Granzotto

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