Ah, il «Ginrosa» di piazza San Babila. Può, il vecchio e glorioso bar «Ginrosa» chiudere per una bega da condominio? Il rischio cè, e sarebbe una ferita senza senso inferta alla storia della città: storia minore, ma intimamente legata - nei personaggi, nelle atmosfere, nel rito tutto meneghino dellaperitivo - alle grandi trasformazioni. I milanesi della Milano allegra e speranzosa del secondo dopoguerra lo chiamavano «Donini», semplicemente. Era risorto con la resurrezione dalle macerie, allangolo del grande immobile costruito sul lato settentrionale di piazza San Babila, rasa al suolo dai bombardamenti alleati. Ma la biografia del locale si perde ancora più indietro, nelle brume dellOttocento austroungarico, quando Alessandro Manzoni - che era nato a due passi da lì, al 16 di via Visconti di Modrone - stava ancora lavorando alla prima stesura del Fermo e Lucia, divenuto poi celebre con un altro titolo.
Oggi sul «Ginrosa» incombe una sentenza del tribunale, che lo obbliga a sloggiare il dehor sotto i portici. Senza il dehor non sarebbe più lo stesso «Ginrosa», i suoi quindici camerieri rischierebbero il posto, il bar rischierebbe la chiusura. Si dirà: i bar aprono e chiudono. Ma quale altro bar, a Milano, può vantarsi di avere dato un nome a un cocktail, e poi di essersi immedesimato con esso fino al punto di prenderne a sua volta il nome? Avevano provato a chiuderlo con le molotov, per due volte, negli anni Settanta, i ragazzi del Movimento studentesco, che lo consideravano una roccaforte dei «sanbabilini», gli ultrà neofascisti. Ma ogni volta il «Donini» - come allora si continuava a chiamarlo - rinasceva dalle sue ceneri. Dove non riuscirono le molotov ora rischiano di riuscire le carte bollate.
La vicenda, a ben guardarla, ha del paradossale. Per tenere i suo tavolini nella galleria di piazza San Babila, il «Ginrosa» ha sempre pagato la sua tassa per il plateatico al Comune di Milano, che per mezzo secolo lha incassata. Ora un commercialista che ha lo studio lì sopra sostiene che la galleria appartiene al condominio, non al Comune, e che pertanto o il «Ginrosa» si piega alle richieste o deve andarsene. Il Comune - che pure della rivitalizzazione del centro ha fatto una battaglia - si è defilato, rinunciando a rivendicare come suo quel pubblico passaggio. E laltro ieri a Francesco De Luca, che da undici anni è divenuto il proprietario del «Ginrosa», è arrivato lultimatum dai legali.
Il bar era nato nel 1820, e si chiamava «Canetta», dal nome del creatore: ma per anni i milanesi lo chiamarono «Bottiglieria del Leone», perché sul palazzo svettava un leone di San Marco come messaggio damore alla città di Venezia, rimasta sotto il gioco austriaco anche dopo larmistizio di Villafranca. Dopo i Canetta, arrivò il leggendario Donini, pioniere della via milanese allaperitivo. Creò un cocktail chiamato Consomè, e poi divenuto noto come Mistura Donini. Dopo le bombe e la ricostruzione arrivò il Marangione, anche lui barista creativo: anche lui inventò un cocktail, lo chiamò Ginrosa, e un po alla volta questo nome fortunato è diventato quello dellantico locale.
Al bancone del «Ginrosa» si sono appoggiati generazioni di milanesi, di giornalisti, di sindaci - lo scorbutico Bucalossi, laccorto Aniasi, linfaticabile Tognoli - di magistrati. Sulle bottiglie allineate sono rimbalzati decenni di chiacchiere di politica, di affari, di calcio. Basterà, questo carico di reminescenze, a toccare il cuore duro dei condòmini?
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