Il pittore goriziano Zoran Music ha sempre inteso la pittura come unesperienza estrema, una imprevedibile congiunzione di civiltà mediterranea e di civiltà nordica, così come di spirito apollineo e di spirito dionisiaco. Si tratta di una polarità che sembra trovare terreno favorevole proprio nel luogo dorigine di Music, un luogo di confine, dal quale proviene anche uno dei più grandi intellettuali italiani di questo secolo, Carlo Michelstaedter: anche egli, infatti, impostò la sua speculazione sulla dialettica tra persuasione e retorica. In termini figurativi ciò equivale a un conflitto tra le ragioni civili, morali e religiose e quelle formali. In Music le prime hanno voce nella serie drammatica Non siamo gli ultimi, alla cui invenzione hanno presieduto i nomi di Soutine e di Varlin; le seconde nelle serie più note e consuete dei cavalli (Motivi dalmati) e dei paesaggi. È così una felice conferma sapere che Music ha abitato a Parigi nello studio che fu di Soutine, e che alcuni dei suoi paesaggi discendono dagli stessi luoghi dAppennino che hanno ispirato Morandi.
Difficile immaginare conciliazione più ardua di quella fra artisti così lontani; ma Music lha perseguita con una ostinazione che non mostra lo sforzo che è costata. Nella sua biografia i contributi di Giuseppe Mazzariol e di Jean Leymarie, pertinenti ed esatti, cercano di spiegarlo. Mazzariol parla di «imponderabile»; Leymarie di «pittore di sentimento». E in effetti i dipinti di Music non hanno peso, sono come crisalidi, sono purissime essenze, sentimenti.
Nella serie Non siamo gli ultimi, troviamo la memoria della prigionia nel campo di concentramento di Dachau dal 1944 al 1945. Di quellorribile lungo momento restano come documento alcuni disegni; e, a distanza di molti anni, tra il 1970 e il 1975, appaiono ancora, per un improvviso ricordo, quegli straziati e rarefatti dipinti dove i moribondi ammassati, ormai scheletri, urlano. E Music ci dice: «Quei fantasmi ci sono ancora; non cè niente da fare, ancora quei volti urlanti si affacciano davanti a me e affollano le mie tele».
Sui disegni eseguiti in campo di concentramento (conservati nei musei di Basilea a Lubiana) Music dice: «Disegnando mi afferravo a mille dettagli. Quale tragica eleganza in quei fragili corpi. Dei dettagli così precisi, quelle mani, quelle dita sottili, i piedi, le bocche semiaperte nellestremo tentativo di aspirare ancora un po daria. E le ossa ricoperte da una pelle bianca appena un po livida». Dunque le urla sono sospiri, ed è forse perché nella pittura non cè mai la tragedia ma sempre infinita consolazione.
Non la struttura, non la composizione, non la fisicità del quadro, pur evidentissime, stanno davanti a noi, ma qualcosa che sta oltre le nostre facoltà visive, le tracce di un percorso interiore. Gli archetipi cui così spesso egli si affida, come lontane memorie delle pitture preistoriche di Altamura e di Lascaux, si stampano dentro di noi. Vediamo qualcosa che ci pare daver sempre visto. Per Music la pittura è uno scavo nellinconscio e per questo si rivela tutto in superficie. Ma è una illusione: «La sua pittura è dove limponderabile fa la sua apparizione più di frequente».
Logico che lapprodo fosse in una indistinta immersione luminosa. Le opere degli ultimi anni, come le Vedute di Venezia, le più disfatte, come quelle di Turner e di Monet, con muri di vecchie case e interni di cattedrali, e soprattutto la serie lenta e grave dellAtelier, appartengono a quei dipinti per cui le parole sono inadeguate, o per meglio dire inadatte. Il silenzio, la solitudine, la bellezza pura, perfino la certezza di Dio, attraversano quelle tele in modo impalpabile e sempre trasparente. Questi dipinti cantano, riproducono leco degli organi nelle cattedrali. E sono tutti quadri religiosi, anche i muri delle Zattere, anche il disadorno atelier con la moglie Ida in posa.
Ma in Music lo spazio non è quello del reale nelle sue infinite apparenze, ma è lo spazio dellanima.
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