da Milano
La crisi di Alitalia viene da molto lontano: e i proclami politici di questi giorni appaiono ancor più colpevoli, perché di tempo per salvare, risanare, rilanciare la compagnia ce n’è stato. Ora siamo agli sgoccioli e le condizioni dell’azienda sono talmente deteriorate da rendere necessario un intervento - di chiunque sia - molto profondo. Colpisce, vieppiù, il confronto: il trasporto aereo - industria globale per antonomasia - in tutto il mondo si è risanato dalla crisi traumatica del 2001, il settore è in utile, e l’avvio (la prossima settimana) della liberalizzazione dei collegamenti tra Europa e Stati Uniti promette nuova competizione e prospettive di sviluppo al mercato.
Alitalia non ha saputo cogliere le occasioni che si sono presentate. Una, d’origine: dopo la completa liberalizzazione del trasporto aereo in Europa, nel 1995, la mentalità della (da quel momento «ex») compagnia di bandiera è rimasta statalista, e non ha capito che per fare «massa critica» avrebbe dovuto stringere accordi con i vettori minori. Lo hanno fatto Air France in Francia e Lufthansa in Germania, dove oggi hanno un peso quasi doppio rispetto a quello di Alitalia in Italia; e non hanno avuto, nei loro Paesi, un’autorità Antitrust così severa come da noi. Il trasporto aereo è un’industria che necessita di «sistema» e che si basa su economie di scala.
Una colpa grave l’ha avuta l’Unione europea. Siamo alla fine degli anni Novanta, determinanti per i nuovi assetti del trasporto aereo. Nel 1997 Alitalia vara un aumento di capitale di 1.500 miliardi. L’Unione europea - dove Commissario ai Trasporti è Neil Kinnock, uomo esplicitamente vicino agli interessi di British Airways - qualifica l’operazione come «aiuto di Stato», ritenendo che rispondesse a una logica assistenzialista e non di mercato. Così pone dei vincoli: Alitalia non può acquistare nuovi aerei e non può utilizzare liberamente le tariffe per combattere la concorrenza. L’amministratore delegato del momento, Domenico Cempella - l’unico che, da allora, abbia chiuso bilanci in nero e che abbia avuto in testa strategie chiare - si oppose: la Corte di giustizia europea diede ragione all’Italia. Il danno fu stimato in 1.500 miliardi, ma il nostro governo non li reclamò, nonostante la compagnia intanto fosse rimasta inesorabilmente indietro rispetto ai concorrenti.
Gli scenari dicevano che solo i grandi sarebbero sopravvissuti alla selezione del mercato; per Alitalia era dunque necessaria un’alleanza internazionale. Colloqui furono avviati con Air France, allora in crisi, con Swissair (poi fallita) e con l’olandese Klm. Le ultime due presentavano notevoli sinergie con Alitalia: soprattutto l’ultima. Favorevoli le integrazioni della flotta (in prevalenza di lungo raggio quella di Klm, di breve e medio quella di Alitalia) e degli aeroporti: con Amsterdam ormai saturo, gli olandesi volevano cogliere l’opportunità del nuovo hub che si stava aprendo a Malpensa, che avrebbe dotato il nuovo gruppo di due grandi scali intercontinentali.
Malpensa era un progetto governativo da almeno dieci anni, e su di esso si basavano le strategie di Alitalia. Il nostro Paese però si dotava in ritardo di una struttura al servizio del traffico «ricco» del Paese, che era già stato catturato dalle compagnie straniere, le quali dall’aeroporto di Linate (comodissimo per la sua vicinanza alla città) facevano incetta di uomini d’affari, smistandoli per i voli intercontinentali negli hub di Londra, Francoforte e Parigi. Contro Malpensa si creò un fortissimo «cartello» dei vettori europei che non intendevano rinunciare alla loro colonia italiana; e si creò una surreale alleanza tra le compagnie estere, gran parte dei cittadini milanesi e i poteri romani a favore di Linate, principale concorrente di Malpensa: i vettori stranieri con l’obiettivo di «stoppare» Alitalia, i milanesi per pigrizia, perché Linate è più comodo, i romani per non veder fuggire a Milano il baricentro della compagnia nazionale.
Linate, che nell’impostazione originaria doveva essere riservato al solo Milano-Roma, fu oggetto di un lungo braccio di ferro, segnato da cinque successivi decreti, e alla fine fu contingentato ma riaperto ai voli internazionali, vanificando il «recupero» del traffico business; l’Alitalia dovette a quel punto garantire due presenze a Milano, una per l’hub e una per la città, con sovrapposizione di flotta e di costi. L’aeroporto varesino non fu dotato delle infrastrutture necessarie (il collegamento ferroviario delle Ferrovie Nord, azienda della Regione Lombardia anche allora presieduta da Roberto Formigoni, fu inaugurato sei mesi dopo lo scalo), e il suo esordio fu un immediato collasso: in tilt i sistemi informatici, insufficienti gli impianti di smistamento dei bagagli. Quel 25 ottobre 1998 fu una vera catastrofe. Il presidente della Sea era lo stesso di oggi, Giuseppe Bonomi, che tra un mandato e l’altro ha presieduto anche Alitalia.
Sulle incertezze italiane (e governative) legate a Malpensa, s’infranse l’alleanza con Klm: gli olandesi preferirono pagare una penale di 200 milioni piuttosto che invischiarsi con il nostro sistema bizantino. Ce l’hanno ancora legata al dito: la componente olandese di Air France-Klm oggi è quella più ostile all’acquisizione di Alitalia. E dire che allora stava nascendo - dalla fusione tra Alitalia e Klm - il primo vettore europeo, nel quale il capitale italiano, in virtù delle diverse dimensioni, avrebbe pesato per i due terzi. Cempella, che aveva rimesso i conti a posto e garantito la pace sindacale, sbattè la porta e non fece più rientro in aziende di Stato.
Il traffico di Malpensa (senza Klm) fu ridimensionato, Alitalia restò sola, con una flotta insufficiente, e non seppe (o non volle) trovare il coraggio per fare davvero dello scalo lombardo il suo hub. Così la sua base (la sua mentalità, le sua assunzioni) restò Roma, e piloti e hostess, per prendere servizio a Milano, furono avviati a un quotidiano, paradossale pendolarismo. Lo scorso anno, quando l’attuale presidente Maurizio Prato ha deciso di riportare l’hub a Fiumicino, le perdite generate da Malpensa sono state quantificate in 200 milioni all’anno.
Gli attentati del 2001 a New York, la crisi che ne derivò, e la successiva concorrenza aggressiva delle «low cost», misero ancora più in ginocchio la compagnia.
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