Roberto Gervaso, come sta? «Io vivo una vita postuma». Giornalista, scrittore, aforista, non a caso ha scritto di recente un Breve corso di educazione cinica (sottotitolo di «La vita è troppo bella per viverla in due», pubblicato da Mondadori). Gervaso è a casa sua a Roma, vicino al Colosseo. È da solo: «Mia moglie Vittoria, la volpe, la chiamo così perché è molto astuta, mi trascura. È sempre a Milano dai nostri nipoti, tre teppistelli, tre hezbollah che andrebbero arrestati... Mi chiamano Bamba, che qui a Roma non significa niente, ma a Milano, al ristorante, mi dicono: Bamba, che cosa prendi? Non hanno rispetto».
Non esagera?
«Ma no, ormai anche il giornalaio mi chiama così, l'ho autorizzato io, però gli ho detto che deve aggiungere un Sir davanti. Sir Bamba. Del resto io non ho pazienza con loro, e poi lavoro sempre».
Che cosa fa?
«Scrivo, soprattutto di cultura. Anche se ho cominciato con la cronaca specializzata in suicidi e uxoricidi, riusciti. Il meglio lo davo con gli scontri fra due tir sulla Milano-Laghi, con almeno tre morti».
Faceva la nera.
«Dovevi chiedere le foto, terribile. A volte davi tu la notizia alla famiglia. Comunque alla fine ho avuto molto successo».
Come ha iniziato?
«A sedici anni non sapevo che cosa fare. Amavo Frank Sinatra e mi vestivo come lui, quindi ero indeciso fra il crooner, il sindacalista e il giornalista».
Il sindacalista? Proprio lei?
«Beh, a quell'età chi non è un rivoluzionario è un fallito. E chi lo è a quaranta è un imbecille».
Come ha scelto il giornalismo?
«Un giorno sono andato dal parrucchiere a Torino, dove ho vissuto fino a 23 anni. In casa si leggeva La Stampa, detta la bugiarda perché, beh, era il megafono della Fiat».
E dal parrucchiere che è successo?
«Sul tavolino c'era il calendario profumato con le donnine e una copia del Corriere della sera. Lo sfogliai e nella Terza pagina c'era un pezzo di Montanelli, Polli a Cinecittà. Mi divertì tanto che mi portai a casa il foglio e, da quel giorno, misi da parte la paghetta per comprare i suoi articoli. Rinunciavo anche alla Coca Cola».
E che cosa faceva degli articoli?
«Li incollavo in un quadernone. Li conservo ancora tutti. Poi lo conobbi dopo la maturità classica, come premio. Mio padre sperava che volessi andare a Roma per conoscere la Loren o la Lollo, io invece volevo incontrare Montanelli. Dissi a mio padre: voglio diventare come lui».
Come riuscì a incontrarlo?
«Gli scrissi una lettera. Era il 29 luglio del 1956. Mi telefonò a casa di mio nonno e mi invitò a colazione. Io gli dissi che volevo fare il giornalista».
E lui?
«Mi disse: per la massa è un servizio, solo per pochi eletti è una missione. E se vuoi essere fra questi devi indossare il saio benedettino e vivere come un monaco per almeno otto ore al giorno. Poi puoi anche trasformarti in un satiro».
Che altro?
«Ricordati che hai un solo padrone, che non conosci: il lettore. Scrivi in modo che ti capisca anche il lattaio dell'Ohio. Ricordati che una frase si compone di soggetto, predicato, possibilmente verbale e complemento, possibilmente oggetto. E che chi dice con dieci parole quello che può essere detto con cinque è capace di qualunque delitto. E poi: leggi Voltaire».
L'ha letto...?
«Mi ha insegnato l'esprit, la verve diciamo noi. E poi da Wilde ho imparato lo humour, il paradosso. Infine mi disse: non divagare e non perdere il filo, o perdi il lettore. Questo fu il decalogo di Indro. Potremmo farci sei numeri speciali».
E dopo?
«Dopo vinsi una borsa di studio per l'università di Ann Arbor, in Michigan. Però lì fui colpito da una depressione profonda».
Lo racconta nel suo libro, Ho ucciso il cane nero (Mondadori).
«Fui costretto a tornare in Italia. Montanelli mi prese sotto le sue ali e fui assunto al Corriere come cronista di nera. Avevo 24 anni».
Aveva nemici?
«Eh, noi liberali eravamo nemici fisiologici del Partito comunista. Ma i nostri grandi nemici, come oggi, erano i radical chic, quelli che poi sarebbero diventati il gruppo Repubblica-Espresso, il Corriere della sera di Piero Ottone. Ambivano al ruolo di Catoni, e l'infallibile Pizia era Scalfari. Si illusero di forgiare i ceppi con cui incatenare la libertà, e in parte ci riuscirono».
Con che risultato?
«Borghesi trasformati in sanculotti che pasteggiavano a champagne e caviale e necessitavano di calunnie come agli avvoltoi servono carogne. Abbaiavano sempre a favore di qualcuno e hanno contribuito più di tutti a invelenire e disonorare la democrazia».
Senta... l'Italia è conformista?
«Guardi, l'Italia non esiste. Esiste un Paese che si spaccia per essere discendente dagli antichi romani, ma è stato dominato dai barbari, finché è finito nelle mani della Chiesa».
Quindi che Paese siamo?
«Un Paese clericale, che non crede in niente. E una democrazia non può essere clericale, ideologica e dogmatica, può essere solo laica e liberale. Un Paese senza senso civico, più che machiavellico guicciardinesco, dove ciascuno bada al particulare, al compromesso. E poi l'Unità...»
Che cos'è stata l'Unità?
«L'Unità, queste cose la gente deve ficcarsele in testa, fu voluta da un'élite di ventimila nordisti illuminati, sulle spalle di un popolo che era contento nella sua miseria. Poi i Giolitti hanno dato un nerbo burocratico al paese, che ancora resiste. E poi vent'anni di fascismo, la reazione della piccola borghesia e dei poteri forti che non ne potevano più di certi abusi».
In che senso?
«I poteri forti, fra le squadracce rosse, che avrebbero significato il comunismo nel nostro paese e quelle nere, pensarono fossero meglio le nere. Pensarono di potere addomesticare Mussolini, ma lui è stato uno dei più grandi leader politici del suo tempo, pur cinico e spregiudicato quanto mai».
Ma un grande leader?
«Fino al '35 lo fu, anche a detta degli stranieri e perfino di Pertini. Ed è stato uno dei tre grandi giornalisti del Novecento, del tipo polemista. Gli altri due sono Trotzkij e George Bernard Shaw. Diceva Tacito su Nerone: Tutto è a pezzi. Ecco, allora tutto era a pezzi. E poi Sallustio, omnia venalia: tutto era in vendita. Come oggi... La storia non insegna niente, però spiega tutto, a posteriori».
Ridiamo un po'? Perché porta sempre il papillon?
«Solo per vanità ed esibizionismo».
Le donne?
«Le ho amate tutte. Una era gobba, altre bellissime, come mia moglie, che non a caso era modella per Valentino, una balbuziente, due asmatiche... Mi sono piaciute tutte: belle, brutte, grasse, magre, colte, analfabete, principesse, contadine. A trent'anni ebbi l'onore di possedere un'infermiera di 70: lo scriva, il mio fiore all'occhiello».
Non è vero.
«Giuro. Sono un pochino estroso, e ho avuto una vita estrosa».
È vegetariano?
«Lo sono stato. Io sono patofilo, amo le malattie. Cinquant'anni fa andai da un urologo e mi disse: se diventi vegetariano e mangi almeno due pomodori al giorno potrà capitarti di tutto, tranne il tumore alla prostata. Sedici anni fa mi trovano un tumore alla prostata. Da quel giorno mi sono rotto, mangio di tutto, soprattutto il Nonno Nanni, la Nutella e la mortadella».
Che giornalisti servirebbero oggi?
«Longanesi innanzitutto. Mi spiace per Montanelli, che è stato il mio maestro, ma è il più grande giornalista del '900. Anche Montanelli lo diceva: senza Longanesi non sarei mai diventato Montanelli. Indro era un talento straordinario, ma Longanesi è stato il genio del giornalismo italiano».
Altri?
«Prezzolini, che ha spiegato agli italiani che cos'è l'Italia e che cosa sono gli italiani. E Orio Vergani, per la versatilità. Oggi probabilmente se ne andrebbero all'estero. Io ho 123 anni, ma se ne avessi trenta me ne andrei».
Che cosa fa invece?
«Sto dieci ore al giorno a leggere e a scrivere. Leggo i classici, i miei preferiti: Tacito, Seneca che mi ha insegnato a vivere, Voltaire che mi ha insegnato a scrivere, Ovidio che mi ha insegnato ad amare, anche se qualcosa sapevo già di mio. Per il resto pensa a tutto mia moglie Vittoria, la volpe: io le chiedo una cosa sola, la cedrata Tassoni, però lei vuole togliermi anche quella, perché dice che mi fa male alla glicemia».
È un po' ipocondriaco...
«Ho avuto tre depressioni spaventose, un tumore alla prostata, due bypass. Io accetto tutto.
Mentre il mio amico cardiologo Franco Romeo stava per operarmi a cuore aperto, a mia figlia al telefono ho detto: Cotto e mangiato. Certo se adesso mi venisse una linea di febbre, la chiamerei disperato... A 78 anni so che non posso essere indenne. Io accetto tutto, non subisco niente. Con animo stoico e spirito laico».
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