Analisi Salari variabili, è la carta che deve giocare il sindacato

Nella trattativa di Mirafiori non è in gioco solo il contratto di uno sito produttivo, per quanto importante. Né il solo futuro della Fiat in Italia. Siamo di fronte a un passaggio epocale verso la modernizzazione necessaria per il rilancio di tutto il Paese. Il che, come sostiene il presidente dei banchieri italiani Giuseppe Mussari, non può avvenire senza una nuova declinazione del rapporto tra capitale e lavoro. A ben vedere, è di questo che si sta parlando. Ed è a questo che dovrebbero mirare, prima ancora che l’impresa, gli stessi lavoratori.
Ieri la rottura del confronto azienda-sindacati non ha riguardato solo la Fiom-Cgil, ma anche le organizzazioni dei metalmeccanici di Cisl e Uil, più moderate al punto da aver già firmato accordi separati, a cominciare da quello sulla riforma del contratto. Segno che, al di là delle tattiche negoziali, la distanza con il modello Marchionne (che punta a una maggiore produttività attraverso un più intenso ed efficiente utilizzo dei tempi di lavoro) resta molto ampia. Eppure è proprio in questa distanza che i sindacati dovrebbero individuare un’occasione storica, fornita dal fatto che, per la prima volta nella tradizione Fiat, è sparito il soggetto terzo: lo Stato, inteso come camera di compensazione di ogni squilibrio della grande impresa privata. Non c’è più perché non ci sono più né le risorse, né le possibilità per intervenire nei momenti di crisi: l’euro, come stiamo realizzando in questi mesi, non lo permette più.
Dunque la partita è a due, tertium non datur: capitale e lavoro. E in questa cornice il sindacato dovrebbe chiedere qualcosa di moderno, ossia accettare uno spostamento del rischio d’impresa in capo ai lavoratori attraverso uno scambio nuovo: mettere in discussione una parte del salario in cambio di una partecipazione alle strategie d’impresa. Lo strumento per la prima parte c’è già: è il contratto di produttività, che prevede la detassazione di una quota di retribuzione per i dipendenti fino a 40mila euro di reddito. Tale formula, però, oltre ad aggiungersi alla parte fissa, potrebbe anche sostituirne una quota, e senza un tetto massimo (oggi si parla di 6mila euro annui). In altri termini, il lavoratore legherebbe il 30-40% del proprio reddito ad alcuni parametri oggettivi, trasparenti e misurabili (il margine operativo lordo, la qualità del prodotto e la produttività individuale), avendo l’opportunità di guadagnare il 15-20% di reddito netto in più. O anche in meno, naturalmente. Ma essendo però responsabilizzato dalla condivisione delle scelte strategiche. E non già gestionali, che devono rimanere in capo esclusivo all’azienda.
I vertici dei sindacati più moderati hanno già mostrato abbastanza senso di responsabilità rispetto a percorsi di questo tipo.

E, in fase embrionale, pure Sergio Marchionne, che in Chrysler ha i fondi pensione dei dipendenti nel capitale. Lo stesso non si può ancora dire per le rispettive «basi», aziendali e sindacali. Ma l’impressione è che questo sia l’unico percorso virtuoso. E che possa partire dalla Fiat per raggiungere poi il resto del sistema.

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