A questo mondo non c'è limite al peggio. Mancava che vedessimo anche questa. Soprattutto - laico sacrilegio, ma autentico sacrilegio - mancava che la vedessero gli occhi innocenti dei bambini che per notti e notti avevano sognato la mitica festa azzurra del Ferraris. In visione diretta da Marassi, le «prodezze» delle tigri di Arkan: autentiche bestie, con ampie scuse alle innocenti bestie naturali. Un bambino che entra nello stadio per assistere a una partita della Nazionale di calcio ne conserverà l'indelebile ricordo per l'intera esistenza. Considerate le oltre 230 mie presenze professionali al seguito degli Azzurri in giro per il mondo, la Federcalcio ha voluto ospitare un mio pezzo nella brochure di presentazione di Italia-Serbia distribuita al Ferraris in diecimila copie, definendomi «tifoso Doc». «Dall'Italia di Novo a quella di Prandelli» è il titolo del ricordo che parte dall'amichevole con il Portogallo, 4-1 a Marassi domenica 27 febbraio 1949 davanti a sessantamila anime festanti, pigiate nel vecchio catino in riva al Bisagno come sardine nel barile. Era l'Italia del Grande Torino - Bacigalupo Ballarin Maroso e su su fino all'inarrivabile Valentino Mazzola - il cui aereo, di ritorno dal Portogallo, due mesi dopo si sarebbe schiantato contro la basilica di Superga. I miei occhi estasiati di bambino, protetto in qualche modo da mio padre dalla pressione della massa che tendeva a spiaccicarmi contro la griglia del parterre, non sapevano che da grande avrei avuto la fortuna di potermi guadagnare la pagnotta al seguito di quelle maglie azzurre e di quelle bandiere rossoblu e blucerchiate che qua e là sventolavano sulla folla in delirio. Non sapevo. Ma davo per certo che, quale che fosse stato il mio destino, i benché minimi particolari di quella fiabesca partita mai li avrei dimenticati.
Ebbene sì. Laico sacrilegio, ma autentico sacrilegio. Beffardamente consumato la sera prima del 14 ottobre, 17° anniversario della morte di Paolo Mantovani, che della tolleranza della pace e dell'allegria nel calcio in genere e della sacralità dei bambini nello sport in particolare fece una missione. Cos'abbia in effetti rappresentato per il calcio italiano in genere e per la Sampdoria in particolare un presidente come Paolo Mantovani fu definitivamente compreso pure dagli scettici al suo funerale, celebrato in Santa Teresa del Bambin Gesù in Albaro assediata da 40 mila anime: la maggior parte delle quali - al passaggio della bara portata a spalle da Mancini e Vialli, Mannini e Lombardo, Vierchowod e Pagliuca, con il figlio Enrico - in un mare di lacrime alzavano al cielo l'urlo da brividi: «Paolo! Paolo!». Travolti dall'onda emozionale, frammisti alla folla strabocchevole c'erano i più grandi personaggi del calcio italiano; e non a caso faceva spicco, guidata dal presidente Spinelli, l'intera grande famiglia cugina e rivale del Grifone.
Trovo insomma opportuno ribadire ciò che sempre convintamente ho sostenuto. Che i successi calcistici ottenuti da Paolo Mantovani in 14 anni e 3 mesi di presidenza - per quanto strabilianti in rapporto alle realtà «contro» le quali furono conquistati (una per tutte: per 3 anni si giocò «in casa» nel dimezzato cantiere del Ferraris!) - non pareggiavano l'enorme forza contrattuale del Personaggio che miracolisticamente gli permise di rendere - da ansiosa quando non astiosa che era - allegra e tollerante la tifoseria blucerchiata intanto che significativamente l'allargava; conseguentemente promuovendo un inedito prezioso rapporto di civile convivenza con la tifoseria rossoblu tradizionalmente votata al reciproco conflitto viscerale. «I nostri avversari da battere - soleva dire il presidente - sono oltre Appennino ed è là che li dovremo stanare». La scossa che Paolo Mantovani diede al nostro infingardo «maniman» (non a caso oggi stesso ricorre il 30° anniversario di fondazione del lungimirante Centro blucerchiato di Bogliasco) permise alla Sampdoria di inserirsi prepotentemente nell'asse di ferro TO-MI-RO al punto da metterne in discussione e anzi in crisi la supremazia tradizionale. Naturalmente si trattava di un calcio «più facile», in cui pesavano molto meno tivù, sponsor, procuratori e concorrenza internazionale.
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