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Arrestano il suo rapitore, lei muore lo stesso giorno

Ci sono storie, vicende umane che non possono essere affrontate e spiegate con gli strumenti della pura logica. Per comprenderle, per penetrarne il senso bisogna ricorrere a categorie come il fato e il destino, per chi ci crede; o al mistero che si annida in certe «magiche» congiunzioni astrali disvelate dalla lettura della mano, dei fondi di caffè, o dai tarocchi. Sempre per chi ci crede.
Ecco per esempio questa storia amara e però a suo modo anche consolatrice (l'agra consolazione che può dare l'ottenimento di una giustizia a lungo perseguita) che affonda le sue radici in un'epoca che risale agli ultimi due decenni del secolo scorso ma sembra perfino più antica, per la barbarie che la connotò: quella dei sequestri di persona e delle bande calabresi che tra San Luca, Platì, Natile, Africo aveva le sue roccheforti, le sue bande e le sue prigioni. È la storia di una donna, tenuta prigioniera per nove mesi in Aspromonte, che per morire «aspetta», per così dire, che si compia l'atto finale di quella lontana vicenda: l'arresto dell'ultimo responsabile, l'unico che finora era riuscito a farla franca, a non pagare pegno per la crudeltà, per la cattiveria, per la mancanza di pietà di cui al tempo dei fatti si era reso protagonista.
Lei, la vittima, la morta, si chiamava Alessandra Sgarella Vavassori. Aveva solo 52 anni. La rapirono nel dicembre del 1997, quando aveva 39 anni (era la moglie dell'amministratore delegato della Italsempione Spa, un'azienda di trasporti internazionali) e la tennero segregata in Aspromonte per nove mesi nutrendola a base di carne in scatola e insalate di pomodoro. Alessandra Sgarella è morta dopo una lunga malattia nella notte fra venerdì e sabato, poche ore dopo aver appreso della cattura di Francesco Perre, 44 anni, l'unico dei responsabili di quel sequestro ancora a piede libero. Come se davvero avesse aspettato questo momento: il momento in cui si può dire che «giustizia è fatta» per mettere a posto i propri conti in sospeso, per chiudere una storia dolorosa rimasta aperta e affidarsi più pacificati al mistero della morte.
Francesco Perre l'hanno preso in campagna, in una forra nascosta da un antico canneto al crocevia fra i territori di tre Comuni: Bova, Palizzi e Africo. Per il sequestro Sgarella, Perre aveva rimediato una condanna a 28 anni di reclusione; altri se ne erano aggiunti, dal momento di quella condanna, soprattutto per traffico di stupefacenti, ramo nel quale il bandito era ancora in attività. Tanto è vero che a guidare i carabinieri sulle sue tracce è stata una piantagione di circa 2 mila piante di canapa indiana a Fiumara Cambi. Perre l'hanno preso mentre se ne veniva bel bello ad aprire l'impianto di irrigazione a goccia della piantagione e per controllare lo stato di maturazione delle piantine. Breve rincorsa (breve perché i boss calabresi, anche giovani, son quasi sempre panzuti e di gamba corta e moscia, ormai assuefatta alle comodità del Suv).
Per quasi un ventennio, il sequestro di persona a scopo di estorsione parve un buon affare, alle cosche della Jonica. Si incassavano i riscatti e si reinvestivano in cocaina ed eroina. Finchè lo Stato decise di fare un po' più seriamente (carcere a vita per tutti i partecipanti al sequestro, blocco serio dei beni) rendendo più complessa e costosa la gestione dell'ostaggio.
Per il sequestro la banda chiese l'astronomica somma di cinquanta miliardi di lire. Ne ebbero forse 5 (2,5 milioni di euro) ma finirono tutti dietro le sbarre.
«L'arresto di Perre e la morte di Alessandra Sgarella - ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ci ha riportato con la mente alla triste stagione dei sequestri di persona. La Calabria, proprio a causa di quel periodo terribile, negli anni '80 e '90, è stata marchiata come la terra dei sequestratori».

Una vergogna di cui la maggioranza degli onesti, che ieri, saputo della morte della povera Sgarella si è inchinata alla sua memoria, porta ancora il peso.

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