Tra gli ayatollah è resa dei conti

«Per capire chi vince segui i soldi». Lo sussurravano già quattro anni fa. Allora sul ring delle presidenziali s’affrontavano l’ancora sconosciuto Mahmoud Ahmadinejad e Alì Akhbar Hashemi Rafsanjani, il 75enne ayatollah già due volte presidente, considerato uno degli uomini più ricchi del paese. Oggi al posto dell’ayatollah Rafsanjani, detto non a caso lo “Squalo”, c’è il 67enne ex premier Mir Hussein Moussavi. Il risultato non cambia. All’ombra di elezioni, brogli e scontri di piazza la guerra vera è sempre quella tra lo Squalo e la Guida Suprema innescata, vent’anni fa, dalla nomina di Khamenei a successore dell’imam Khomeini.
La posta finale sono il potere e il controllo del 7% del petrolio e del 15% del gas del pianeta. Per metterci le mani bisogna partire dalle bonjad, le fondazioni pensate nel 1979 per ridistribuire al popolo le ricchezze dello Scià e dei fuoriusciti. Prive di controlli, le bonjad sono straordinari strumenti di politica interna e internazionale, ma anche autentici buchi neri su cui vigila solo la Suprema Guida. La fondazione Razavi dell’ayatollah Vaez Tabasi, uno degli esponenti più intransigenti del potere iraniano, ne è il simbolo. Nata per gestire i pellegrinaggi alla tomba dell’Imam Reza, controlla fondi per 11 miliardi di euro oltre a miniere, industrie tessili, impianti farmaceutici, fattorie, allevamenti e partecipazioni in imprese straniere. Ed è famosa per aver fornito a Hezbollah il contante per la ricostruzione dopo la guerra con Israele del 2006. La fondazione Mostazafan & Jambazan per il mantenimento degli invalidi e il sostentamento degli oppressi è stata per decenni la creatura di Mohsen Rafiqdoost, il figlio di un venditore di frutta del bazaar di Teheran diventato autista di Khomeini nel 1979 e promosso poi a ministro dei Pasdaran. Oggi la Fondazione Mostazafan dà lavoro a 400mila persone, controlla gli ex alberghi della Hilton e della Hyatt, imbottiglia negli ex stabilimenti Pepsi Cola l’onnipresente bibita Zam zam, produce derivati del petrolio e del cemento. La sua funzione più importante resta però il trasferimento delle masse destinate agli eventi di regime e il controllo dei voti dei più poveri grazie a sovvenzioni e opere di carità. Quelle bonjad, controllabili soltanto dalla Suprema Guida, sono il principale ostacolo alle attività di Rafsanjani un ayatollah imprenditore che gestisce o ha gestito attraverso fratelli, figli e cognati il controllo degli stabilimenti automobilistici della Daewoo, una linea aerea, la più grande miniera di rame dell’Iran, i proventi annui pari a 300 milioni di euro delle esportazioni di pistacchio e il progetto da 500 milioni di euro per la costruzione del metrò di Teheran.
Non a caso nel 1991, non appena diventato presidente, Rafsanjani lancia la parola d’ordine della privatizzazione e della liberalizzazione economica. Per Khamenei e falchi del regime liberalizzare significa rinunciare al controllo delle risorse da destinare allo sviluppo missilistico, alle operazioni internazionali come il finaziamento di Hezbollah o ai piani nucleari gestiti dai pasdaran. Tra quel lontano 1991 ed oggi si disegna l’attuale panorama del paese. L’ala dura fa fronte compatto con Khamenei e il potere delle bonjad. Rafsanjani si conquista il consenso e l’appoggio dei nuovi ricchi e di quegli imprenditori pronti a garantire la sopravvivenza della Repubblica islamica in cambio d’una più ampia distribuzione delle risorse. La presidenza Ahmadinejad, segnata da disastrose ricette economiche che privilegiano le fondazioni e i loro controllori, porta l’inflazione al 25% e la disoccupazione al 20. Da quel momento il regime va in stallo.

Se i poveri sopravvivono grazie ai sussidi, il ceto medio si ritrova senza lavoro e senza potere d’acquisto. E il malcontento diventa l’arma segreta di Rafsanjani e Mir Hussein Moussavi la punta di lancia indispensabile per guidare la protesta di piazza, colpire al cuore Khamenei e scassinare i forzieri delle bonjad.

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