BASSANI Dietro la porta della guerra

Questa sera al Premio «Strega», Telecom Progetto Italia presenta i «Quaderni inediti 1941-1944» dello scrittore emiliano

Fuori Porta S. Paolo è un quartiere povero, son case operaie grandi e sbrecciate, cincischiate dalla guerra che di qui è già passata. Le facciate serbano il ricordo dell’8 settembre, la mitraglia ha punteggiato le facciate di innumerevoli piccole ferite bianche, è come una specie di fastidiosa eruzione che ne deturpa i visi malinconici e impolverati.
Il pomeriggio è grigio, il cielo bianco di nuvole prossime a dissolversi in pioggia, la temperatura è mite, quasi calda, come un alito. Il tram, affollato di gente silenziosa, passa tra le cose con un sinistro clangore di ferraglia; mi guardo intorno, questo abbandonato sobborgo industriale è un’immagine della guerra come forse la rivedrò tra trent’anni, incredulo, in una fotografia sbiadita. Le sagome lunghe dei camini delle fabbriche non danno fumo: questa gente che riempie il tram, sono forse gli stessi operai che un giorno lavoravano in quelle fabbriche ora deserte. Il lezzo che emana dalla folla è insopportabile. Le mura che fiancheggiano il cammino del tram portano ancora le tracce di lettere alte e rosse, semicancellate, sono incitamenti alla rivoluzione: VIVA STALIN. VIVA L’ESERCITO ROSSO ecc. La gente legge e tace. Poi le case diradano. Il tram esce nella piana sgombra e triste. Presso la basilica incontriamo una pattuglia tedesca, armata di tutto punto, alcuni dei soldati hanno il caratteristico elmetto in testa, i cappottoni prussiani lunghi fino al calcagno. Quando il tram si ferma, i soldati guardano lungamente le donne che ne scendono. Altri, assonnati, sono rovesciati nell’erba, sul ciglio della strada. Lungo la strada, intanto il traffico militare dura intensissimo. Questi soldati sono addetti - pare - a un posto di blocco. Uno di essi tiene in pugno un bastone che ha un dischetto verniciato di bianco e rosso da un capo. Sta piantato sul mezzo dell’asfalto e gli autotreni gli si vanno a fermare contro la pancia. Il rombo fortissimo di quando ripartono, si perde nella vastità della pianura spoglia, senza ripari, come una piazza d’armi.
...Di annoiata mestizia negli occhi. Se vogliamo intanto accomodarci in chiesa... Entriamo. E subito l’alta quiete della basilica ci separa dal mondo, il mugghio soffocato e tremendo dei grossi calibri non si sente più, il rollio fragoroso dei camions non può varcare il sigillo di questo silenzio. Fa più freddo che fuori. Avanziamo in punta di piedi, a poco a poco ci avvolge un profumo fresco di incenso, assieme a una melodia di voci virili e mansuete.
Da qui innanzi assistiamo a una stupefacente rappresentazione. Nel coretto, situato entro una piccola cappella d’una navata laterale, ci appaiono improvvisamente i Padri benedettini seduti negli stalli di legno bruno, vecchi e giovani; i gesti di alcuni, in piedi sotto gli stalli, ritmati nella melodia gregoriana, hanno la dolce grazia d’una danza. Guardo, in prima fila, un giovane monaco, che ha chiusi gli occhi sul libro dove legge le antiche parole del cantico cristiano. A quale Dio chiude gli occhi, stremato così di dolcezza e d’amore? C’è in tutta la sua persona un adeguamento a una legge starei per dire estetica, spira dal suo profilo struggente e melanconico la sfumata e musicale bellezza dei catecumeni bizantini di S. Vitale in Ravenna, qualcosa che ricorda la spirituale trepidazione dell’anima naturaliter cristiana di Mario l’epicureo... Ma qui tutto è più consapevolmente e, starei per dire, più superbamente spettacolo. Il transito del Santissimo attraverso la solitaria nudità della Basilica immensa, compiuto da tre festosi e mitrati protagonisti è, ai piedi dell’altare centrale - l’altare del Papa - una pantomima di rossi scarlatti nell’aurea polvere che frange la luce dell’interno. Poi ricominciano, dopo il ritorno del Santissimo al centro del Coro, le lente danze dei giovani padri, riondeggia l’incensiere, s’inchinano l’uno all’altro i giovani, il rapimento del mio Mario s’esala in nuovi canti d’una liquida e arresa pace... La loro celeste monotonia mi durerà nell’anima fino a notte.

Diario romano
(venerdì 25 febbraio 1944)
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Visita al quartiere generale della Borsa nera, nelle luride casette a Tor di Nona. Capitiamo proprio durante un sopralluogo della polizia. La polizia mercanteggia il silenzio. La rivoluzione proletaria è già in atto in questo assumere che fa il quarto stato il potere economico in proprio. Caratteristica reazione della piccola borghesia, che impreca e vorrebbe l’applicazione di mezzi draconiani da parte di funzionari che non sono più disposti a servirla....
Al divieto dei tedeschi di circolare con biciclette normali, l’ingegnoso popolo italiano reagisce evitando con destrezza l’ostacolo (come al solito, con caratteristica immutabilmente servile). Circolano per le strade di Roma biciclette con applicata (a lato o a tergo) una simbolica targa vuota. Si è già arrivati, dopo la scoperta dell’inganno, a una fase di eleganza aerodinamica o di bizantina civetteria...
Diario romano (gennaio-marzo 1944)
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Potrà essere dubbio - e un recente articolo di B. Croce ci ha persuasi ancora una volta che l’attribuzione delle responsabilità, in questo caso, è impresa assai problematica - che il fascismo sia o non sia stato la dittatura di determinati ceti sociali. Una cosa ad ogni modo è certa: che il fascismo è stato la dittatura di un determinato costume, di un particolare gusto, la dittatura del cattivo gusto. Dittatura della borghesia, si dice comunemente.

E noi diremmo piuttosto dittatura di una particolare mentalità, della quale non andava esente nessuno che fosse partecipe del potere o che quel potere sostenesse nello slancio d’un sentimento congeniale. Il fascismo è stato il riconoscimento ufficiale della volgarità a tutti i costi.
Diario (giugno-luglio 1944)

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