Bello l’Inno di Benigni, ma l’Unità fu anche un gran «magna magna»

Caro Granzotto, per favore può dissertare - alla sua maniera - sul Benigni nazionale? Punto primo: La vita è bella è insulto ai nostri fratelli maggiori, gli ebrei. Punto secondo: veda il nostro se gli riesce di fare un film sui Gulag, Crinovaia a esempio (Luigi Corti, Il cavallo rosso). Punto terzo: 250mila euri più altri 250mila eventuali, è etico, corretto incassarli per un comunista? Punto quarto: quando recita Dante dovrebbe mettersi in giacca e cravatta, pettinarsi per bene e non agitarsi sguaiatamente. Dante è faccenda seria, è nostro non è suo.
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Gli è, caro Romolotti, che a me Benigni non dispiace. Di lui come attore cinematografico ho visto poco (un micidiale, tediosissimo Pinocchio) e non, naturalmente, La vita è bella. Ché come da tutti i film qualificati, prima ancora che escano nelle sale, dei capolavori assoluti me ne sono tenuto alla larga. Però il Benigni del palcoscenico televisivo e il Benigni lettore di Dante sì, mi piacciono e molto. Lei, caro Romolotti, vorrebbe che indossasse giacca e cravatta - e che si pettinasse per bene - prima di leggere o meglio declamare, perché la sa a memoria, la Commedia. E a quale scopo? Altri in giacca e cravatta la recitano. Sarà proprio perché abbigliati formalmente, ma costoro assumono poi un tono sussiegoso, cattedratico, con la puzza sotto il naso, insomma, che nuoce alla lettura. Ebbi l’occasione di ascoltare Carmelo Bene interpretare, dagli spalti della torre degli Asinelli di Bologna, un canto dell’Inferno. Bene era bravissimo, ma per la cura che mise nella phonè, come la chiamava, nei registri e nei timbri della voce - una sua fissazione - il significato, il rilievo semantico, scusi il parolone, dei versi andò disperso. Con Benigni è tutt’altra musica: non recita se stesso, recita Dante Alighieri. E lo fa, questo è il suo talento, mostrandogli devozione, rispetto reverenziale ma anche quella complicità che viene dalla dimestichezza. Se poi, sbracciandosi per sottolineare la bellezza d’un verso, gli esce la camicia dai calzoni, pazienza. Mi è piaciuto anche nella sua cavalcata risorgimentale sul palcoscenico del teatro Ariston. Dobbiamo celebrarli e festeggiarli i centocinquant’anni dell’unità? Tanto vale farlo con la retorica del caso (la stessa che accompagna le celebrazioni della Resistenza, per dire, coi labari comunali immedagliati, i fazzoletti rossi al collo dei reduci, i discorsi ampollosi sui Valori e i Princìpi). Tanto vale farlo prendendo un po’ da De Amicis, un po’ da Carducci con un pizzico di teatralità alla Gea della Garisenda. Solo quella storia che i protagonisti dell’epopea risorgimentale ne uscirono, a cose fatte, poveri. Quella ce la poteva risparmiare. Il Risorgimento fu anche un magna-magna mica male: nel centocinquantenario non è educato ricordarlo, ma sostenere il contrario suona proprio come excusatio non petita e dunque accusatio manifesta. Il Grande Tessitore, Cavour, morì da uomo più ricco del Piemonte. Vinta la ritrosia che proprio per questo motivo viene il dubbio che non fosse così sincera, Garibaldi si ebbe in dono a titolo di gratitudine nazionale 50mila lire l’anno che tradotti in euri supererebbero in valore le pur lautissimissime pensioni di Ciampi e Amato messe insieme. Ora non stiamo a fare - potremmo, però: le carte cantano ancora - i conti in tasca ai padri, figli, nipoti e nonni della Patria, basti sapere che con l’unità si rimpannucciò anche la camorra alla quale e sempre per gratitudine nazionale (stava dalla parte dei piemontesi, certo al motto di «piatto ricco mi ci ficco») giorni dopo l’annessione il governo unitario assegnò una regalia che tradotta in euri si aggirava sui 20 milioni.

Se lo sapesse Saviano, eh, caro Romolotti? Secondo me troverebbe il modo di far capire che nella «collusione» c’era lo zampino del bisnonno di Berlusconi (beneficiate in modo particolare, extra busta, furono cinque - se ne conoscono i nomi - guaglione camorriste. Il bunga bunga risorgimentale).
Paolo Granzotto

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