Biglietti da visita l’identità di cartone

Erano uno strumento di lavoro, sono diventati un feticcio. Colori, scritte, forme: i dettagli sono studiati attentamente. Gli esperti: «Sono piccoli manifesti della nostra personalità»

Ottantacinque per cinquantacinque: l’identità ha misure standard. Millimetri. Precisi, perché ci deve entrare tutto nel portadocumenti. Nome, cognome, numero di telefono, email. Ci vuole perché chi non ce l’ha non è proprio nessuno. Ci vuole, perché l’Italia ha smesso di far finta che il biglietto da visita non fosse importante. Prego: adesso ti riempiono i cassetti e ti gonfiano i portafogli. Li scorri come si faceva una volta con la rubrica. E forse per capire che vita fai, basta dare un’occhiata ogni tanto al mazzetto di business card appoggiato su un comodino. Scorri e cataloghi: i più insopportabili sono quelli che cancellano i titoli. Dott, Ing, Cav, Avv: un tratto di penna per annullare la barriera. Sbarrano per avvicinare e però distaccano. Come a dire: «Io sono tutto questo, però non te lo faccio pesare». I più ansiotici sono quelli che lo danno prima di presentarsi: «Se vuoi sapere chi sono, leggi». I più sbadati sono quelli che non li portano mai: «Oh, scusa l’ho dimenticato». Col biglietto da visita ci si campa. Ci si gioca una fetta di rapporti sociali, ci si forma una credibilità. «Pare che uno dei drammi esistenziali dell'italiano medio sia proprio riemergere da una presentazione senza sentirsi un perfetto imbecille. Cioè senza doversi chiedere: ma con chi ho parlato? Che cosa fa costui nella vita? Come si guadagna il pane?». Igor Righetti il fenomeno l’ha studiato dalla poltrona del Comunicattivo su Radiouno: cuffie, microfono e un portabigliettini. «Più che un semplice strumento di comunicazione personale, le business card sono ormai diventati una sorta di manifesto del loro portatore. Ne raccontano il carattere e la personalità. Le manie più occulte. Le ambizioni più segrete».
TRA PASSATO E FUTURO
Colori, caratteri, forme. L’identità standard regge: ottantacinque per cinquantacinque resta la misura dell’io di cartoncino. E però è vero pure che sono spariti gli aristocratici bigliettini in corsivo che Matilde Serao vedeva posare sul vassoio d'argento retto dal maggiordomo, ne Il ventre di Napoli. Lo stesso sembra accadere per i Pineider che, a Milano e Roma, hanno accompagnato la grande borghesia e i migliori professionisti. Oggi l’idea è cambiare. E quindi le strade sono due: o ci si sottrae al loro uso pubblicamente, con lo strappo alla Giovanni Agnelli, o si entra nel trip della business card. Se così è, allora non ci si può sottrarre al rito: i biglietti si danno e si prendono. Così parte una gara inconsapevole: devono essere belli, devono colpire, devono stupire. Dietro a una business card ci può essere uno studio di mesi: grafici, art director, designer specializzati lavorano alla trasformazione di una personalità, di un concetto, di un’idea in un pezzettino di carta. Su internet è nato Cool Business Card (creativebits.org/cool_business_card_designs) un blog nel quale gli specialisti della comunicazione e della grafica si confrontano sui criteri di realizzazione di un bigliettino da visita. Il mensile Gq, invece, ne ha fatto una bandiera. Ogni mese pubblica Business Card: una pagina nella quale vengono raccolti e pubblicati i biglietti da visita delle persone incontrate dai giornalisti durante la lavorazione del numero. L’idea è stata del direttore, Michele Lupi. Gli è venuta un giorno, aprendo il suo cassetto: «Ho trovato il biglietto di un pilota. Ha un casco e due bande, una rossa e una azzurra. Ho pensato che si poteva dare un’impronta attraverso le business card. Poi per me è anche il modo di ricordare un amico, Pepi Cereda, uno straordinario collezionista di bigliettini. In quella pagina, ogni mese, c’è la storia del nostro giornale. Chi abbiamo incontrato, quello che abbiamo fatto, dove siamo andati. Il più bello? Quello dello stilista inglese Paul Smith. Me ne voleva dare uno, poi si è accorto che erano finiti. A quel punto ha preso un fazzolettino da bar e l’ha fatto sul momento, con la sua grafia, che poi è anche il suo marchio».
IL DIBATTITO SOCIOLOGICO
Feticcio contemporaneo, il bigliettino ha origini antiche: fu inventato in Francia attorno al 1700. Originariamente erano dei cartoncini manoscritti, verso il 1750 cominciarono a diffondersi modelli stampati, i primi esemplari col solo nome della persona, i successivi con anche motivi decorativi e stemmi. In Italia iniziarono a diffondersi attorno al 1730. Per secoli il galateo ha imposto regole rigide: i titoli erano praticamente vietati, le donne dovevano necessariamente indicare il cognome del marito. L’evoluzione ha cancellato le gabbie: sul bigliettino la deregulation è diventata una realtà. Se ne vedono di ogni tipo. Alti, bassi, spessi, rotondi, quadrati. C’è chi ha deciso di trasformare il bigliettino in una confezione di farmaci, chi li ha fatti fare in plastica o in gomma. Poi c’è il biglietto che si mangia: è fatto di un materiale commestibile. Incisi nome, cognome, indirizzo, recapito telefonico, e-mail. Le informazioni, che poi sono diventate il dettaglio.

Tanto che i sociologi non ci capiscono più nulla. Franco Ferrarotti, per esempio. Spiazzato, distante, allibito: «Non provo nemmeno più a decifrarne il significato. Subisco il rito, per dovere di cortesia; li prendo; li infilo in tasca. E appena possibile li cestino».

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