Blaise Cendrars, un cane sciolto in mezzo all’Atlantico

È facile fare gli «indipendenti» con... l’orifizio posteriore degli altri. Armiamoci e partite, siate liberi, cani sciolti, scorretti (politicamente e non solo), borderline. Infine, apparecchiate il tutto affinché siate soprattutto trascurati e dimenticati. Così poi arrivano loro che vi riscoprono e vi rilanciano. La caccia all’autore solitario, selvatico, errabondo, eccentrico rispetto al centro di gravità delle lettere canonizzate, è aperta 365 giorni l’anno.
Prendiamo Blaise Cendrars, per esempio. Non è che i cinquant’anni dalla sua morte, scoccati il 21 gennaio scorso, abbiano scatenato un profluvio di celebrazioni. È vero, la Francia, patria adottiva dello scrittore, poeta, reporter, sceneggiatore svizzero Frédéric-Louis Sauser (così all’anagrafe di La Chaux-de-Fonds, dove nacque l’1 settembre 1887) l’ha incluso nel «pacchetto» ufficiale del 2011. È vero, a Venezia si è tenuto un convegno in suo onore. È vero, quell’indomito bourlingueur (giramondo) sta per trovar casa nel prestigioso condominio della «Pléiade» di Gallimard. Ma, se a lui mancava qualcosa, La mano mozza che resta il suo titolo più famoso (tradotto da Giorgio Caproni), a noi, di lui, manca molto la suddetta «indipendenza». Che fu autentica e non di maniera, pericolosa e non calcolata, voluta e non trovata.
Un buon assaggio eccolo qui fresco di stampa: Il raggio verde (Via del Vento Edizioni, pagg. 32, euro 4, traduzione di Antonio Castronuovo). Inedito in Italia, uscì sul settimanale Candide nel ’38, quando «l’Omero della Transiberiana», come viene chiamato per il suo La Prose du Transsibérien et de la Petite Jehanne de France, uscito nel ’13, leccandosi ancora le ferite fisiche e morali della Prima guerra mondiale (e in attesa della seconda...) si dedicava ai reportage. E, pochi mesi dopo, con minimi ritocchi entrò nella collezione La vita rischiosa per Grasset.
A dir la verità, qui di rischioso c’è ben poco. Il narratore (Cendrars stesso, occorre dirlo?) si trova a bordo del cargo «Ile-de-Ré» che fa rotta verso l’America del Sud. Partita da Dunkerque con destinazione Bahia Blanca, quella «bagnarola tenuta con molta negligenza, che tirava per la propria strada, filando coi suoi otto nodi», è il regno dell’ozio e delle bevute notturne con i pochi membri dell’equipaggio. Il Nostro ha persino a propria esclusiva disposizione una piccola piscina dove sguazzare in lungo e in largo. Un giorno nel laghetto artificiale che solca l’Atlantico a velocità di crociera si tuffa il corpaccione bianco e quasi femmineo di un intruso, quello di Oscar Delœl, l’ispettore della compagnia. Sulle prime Blaise rifugge la sua compagnia: lo disturbano il suo sparare agli albatri e il suo scattar foto. Ma poi è lui a condividere con il protagonista la magia del raggio verde in prossimità dell’Equatore. «È stupendo... Sì, è ancora più bello che in Jules Verne», esclama Delœl. Verne, la stessa passione del narratore... Il quale commenta: «mentre il comandante, che aveva goduto di un’infanzia felice ed esuberante tra i suoi, oggi si annoiava della vita, io che non ero mai stato coccolato da nessuno amavo il mondo intero, l’esistenza...».
Così si scopre che i due, nel settembre del ’15, erano al fronte a pochi metri di distanza, l’uno «comandante», appunto, l’altro caporale nella Legione, «matricola 1529».

E che proprio gli uomini della Legione avevano rubato una botte di vino agli altri. «Pensi un po’ duecentoventicinque litri per undici uomini!». Alcuni dei quali caddero sotto le granate amiche. «Non li commiseri, comandante. Ne restano ancora due o tre. Il seme cattivo non muore mai».

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