LE BORSE DEI DESIDERI

Con le scarpe sono l’accessorio che fa impazzire le donne. Ora un libro traccia l’identikit delle signore partendo dal modello che preferiscono. E racconta: «Le borsette sono come i mariti, prima di sposarne uno ci si pensa su un bel po’. Di solito»

Qualcuno le ha definite il Sacro Graal della moda, altri l'accessorio più status-symbol che ci sia, per le donne, naturalmente. Perché se gli uomini di borse e borsette non sanno che farsene, le signore, invece, non possono proprio farne a meno. Semplicemente perché al gentil sesso le tasche non bastano mai e vivono con l'irrefrenabile esigenza di riempire un contenitore dalla forma, materiale e colore più o meno variabile e di trascinarselo con sé per tutto il giorno ovunque vadano. Ragioni misteriose che vengono scandagliate, interpretate, ironizzate nel libro Pazze per le borse! (Sperling & Kupfer, pp. 126, euro 14) da Paola Jacobbi, già autrice del volume Voglio quelle scarpe!, dedicato ad un'altra tipica ossessione femminile, 14mila copie vendute e diritti acquisiti persino da Cina, Corea, Finlandia, Brasile.
Trasformiste, tutto fare, assolutamente inutili, troppo esagerate, troppo striminzite: da spalla, da mano, persino da collo e da polso, pezzi unici o da collezione. Da riempire e strapazzare, da abbracciare e coccolare, come fossero una parte di sé e forse proprio per questo non vengono prestate mai. «Ognuna ha il suo stile, di borsa e di vita. Guardando dentro alla prima si capiscono molte cose della seconda», scrive Paola Jacobbi, glamour-giornalista del settimanale Vanity Fair. Che minuziosamente cataloga signore e signorine in base a tracolle e tracolline: c'è la «generalista onnivora» che porta sempre la stessa borsetta, taglia medio-grande, colore basic nero o marrone perché va con tutto, e la riempie di ogni nonsoché, dalla trousse del trucco ai ritagli dei giornali, dalla merenda all'ombrello portatile. C'è l'«aspirante organizzata» che sceglie quelle formato medio, tradizionali perché un classico è sempre un classico e le svuota pazientemente ogni sera da scontrini e biglietti del tram usati, riponendo ogni oggetto al suo posto, il cellulare nel portacellulare, la penna nel portapenne e così via. Poi c'è l'«umorale trasformista» che ne cambia una al giorno, un po’ l'Imelda Marcos delle borse, e per questo non si ricorda di trasbordare gli oggetti da una all'altra dimenticandosi sempre qualcosa a casa, e la «pianificatrice annuale» che ne porta una a oltranza, in genere dodici mesi, l'importante che sia pratica e sicura, poi la sostituisce, senza troppi rimpianti, senza ripensamenti, gettando la via la vecchia con tutto ciò che in un anno si è accumulato: campioncini di crema, buoni sconto del supermarket scaduti, vecchie bollette. E che dire della bag victim che non colleziona borse ma marchi, o della «doppioborsista» che si trascina non una ma due borsette dove suddivide meticolosamente i suoi averi, o della «spiritosa lolitosa» che sceglie quelle che sembrano qualcos'altro, a forma di casette o di automobili, di cagnolini o di cabine telefoniche, borsette-fumetto indice di personalità stravagante. L'ultima categoria è quella della «senza borsa»: vi appartiene chi è talmente indipendente da poter fare a meno di tutto e riesce a tenere il minimo indispensabile nelle tasche di giacche e pantaloni. Ed è un po' l'erede della leggendaria Coco Chanel: fu lei a disegnare la prima borsetta che consentiva di avere le mani libere: «Stanca di portare le mie borse a mano e di perderle», raccontò Mademoiselle, «ci aggiunsi una striscia e la misi a tracolla». Nasceva così il modello 2.55 (il numero significava febbraio 1955, mese nel quale venne ideato), l'intramontabile borsetta rettangolare impunturata con la catenella per appoggiarla sulla spalla. Vi siete riconosciute almeno in una delle categorie? Siete una di quelle donne che dicono il solito immancabile luogo comune «Io nella borsa porto dietro la casa»? Allora provate a verificare se il contenuto del vostro zainetto, del vostro secchiello o della vostra pochette corrisponde a quello che portavano le signore americane esattamente sessant'anni fa, secondo l'elenco fatto da Anita Daniel sul New York Times dell'epoca: «Due rossetti, un astuccio di cipria, un fazzoletto nuovo e due usati, un pacchetto di lettere, un pacchetto di sigarette, una rubrica, un portafotografie in pelle, una calza smagliata da portare a rammendare».
Cose d'altri tempi. Non lo è, invece, la domanda (scherzosa ma non troppo) che si pone Paola Jacobbi: che rapporto c'è tra una borsetta ed un marito? È meglio l'una oppure l'altro? «Le borse sono simili ai mariti: prima di sposarne uno ci si pensa su un bel po'. Di solito», scrive l'autrice. Ed elenca i vantaggi che, dovendo scegliere, una borsetta può dare rispetto ad un uomo: tra l'altro non dimentica né compleanni né anniversari e ad una festa non vi abbandona per attaccare bottoni con insopportabili sconosciuti. Senza contare che, forse, è più difficile trovare la borsa giusta che l'uomo giusto.
Un paradosso, certo. Ma non per signore che senza un sacco, un cestino, un bauletto non potrebbero vivere, al punto da desiderare di diventare una donna-borsa. Che significa? Che il sogno irraggiungibile è quello di dare il proprio nome ad una borsetta e di entrare così nella leggenda. Come è accaduto in passato a Grace Kelly, Jacqueline Kennedy, Jane Birkin: la prima ha dato il cognome al «petit sac haut à courroies», la piccola borsa alta con la cinghia di Hermès, quella trapezoidale chiusa da un lucchetto e che si chiama proprio Kelly, la seconda ha dato il nome a quella di tela e cuoio, con un unico manico da portare a tracolla e il moschettone in mezzo firmata Gucci, la terza ha battezzato la Birkin Bag, un vero must della griffe Hermès, tanto che chi la vuole deve mettersi in paziente lista d'attesa e risparmiare almeno 2000 euro per il modello base.
Donne-borse, donne che si identificano in quello che stringono tra le mani o appoggiano alla spalla, anche se, in fondo, potrebbero benissimo fare a meno. Come la regina Elisabetta che ad ogni occasione ufficiale sfoggia una delle sue abituali borsette quadrate dal manico troppo corto per essere portate a tracolla e troppo lungo per essere portate a mano. «Chissà che cosa ci terrà mai?», si chiede Paola Jacobbi, considerato lo stuolo di inseparabili segretari, assistenti, body guard a cui potrebbe affidare i suoi averi. «Una pezzuola per pulirsi gli occhiali? Uno spray paralizzante contro i malintenzionati? Un biscotto per i suoi cagnolini corgy?». Bella domanda, ma in fondo la regina è pur sempre una signora come tante, almeno in fatto di un accessorio così maniacalmente femminile. La conclusione? Sta alla fine del libro: «Mi sono convinta che nel rapporto delle donne con le loro borse ci sia qualcosa di ambiguo e struggente. È una relazione di amore-odio quella che ci lega a quel secchiello incasinato, a quella pochette sporca di rossetto, agli angoli nascosti di uno zainetto che ha viaggiato con noi.

La borsa ha molte anime, così utile ma anche così spietata perché basta guardarla per definire la vita della sua proprietaria. E spesso le donne non hanno nessuna voglia di essere definite, preferirebbero sognare vite e borse assai diverse da quelle che si trovano tra le mani».

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