Politica

La "caccia al ricco" è una barbarie ma certi stipendi non sono giustificabili

«Eat the rich», mangiamo i ricchi. È lo stile «gastronomia operaia» che si sta imponendo in questo nuovo ’68 improvvisato, che prende di mira i manager e i banchieri supposti responsabili della crisi. Anche se le scene di questi giorni, a ben guardare, sono le stesse di sempre. In occasione del G20 va in onda la ribellione contro il management e l’investment banking, ma non c’è molta differenza, nelle facce e nei comportamenti, rispetto alle manifestazioni no-global che si ripetono da oltre un decennio. Il minimo comun denominatore è quello della violenza. Va da sé che nessuna condivisione, simpatia o solidarietà può essere fornita a movimenti di questa sorta. Nessuna comprensione nemmeno a chi tra questi manifestanti, a Parigi come a Londra o a Roma, sia sinceramente rivolto contro i disastri causati dagli eccessi della finanza, simbolicamente rappresentati dai super stipendi dei grandi manager. Si parla di milioni di euro l’anno. Magari pagati con i soldi pubblici, come è accaduto nel caso dell’assicurazione Aig, negli Usa. Ciò che non può essere accettato è il metodo, composto di giustizia sommaria, piuttosto che di violenza o intimidazione.
Detto questo, però, sarebbe sbagliato fermarsi qui e non trattare la questione che, in realtà, rischia di essere trattata nel modo sbagliato. Perché le super-retribuzioni dei bramini dell’economia urtano il buon senso e non da ieri. La classifica, provvisoria, dei compensi 2008 (qui a fianco) parte dagli 8,3 milioni di Roberto Tunioli (nella foto), numero uno di Datalogic, società che ha chiuso con 17,8 milioni di utile su 380 di ricavi.
Non a caso il Giornale ne ha scritto in tempi non sospetti e a più riprese. Sia chiaro: nessuna tentazione verso l’appiattimento dei meriti, la parificazione delle qualifiche. È sacrosanto che chi ha responsabilità maggiori e specifiche competenze pretenda una reddito adeguato. Ma non è questo il punto di partenza dal quale, negli ultimi 20 anni, il sistema delle grandi corporate, prima in Usa poi in Europa, ha generato al suo interno una casta di manager autoreferenziale; e soprattutto auto-super-stipendiata, attraverso il meccanismo, diventato perverso, dei bonus e delle stock option: automatismi per moltiplicare i redditi dei manager legandoli al raggiungimento di determinati parametri e obiettivi di bilancio, piuttosto che all’andamento dei titoli azionari. Obiettivi, parametri, bilancio e prezzi che lo stesso manager può manipolare. Come i casi Enron e Parmalat avevano dimostrato con 6-7 anni di anticipo.
Ma senza per forza pensare alle truffe più clamorose, i segnali di una qualche sproporzione erano sotto gli occhi di tutti. Senza che gli interessati ce ne vogliano, se un amministratore delegato come Luca Majocchi, alla guida di Seat Pagine Gialle oggi alle prese con un aumento di capitale necessario per sopravvivere, nel 2008 ha incassato 8 milioni; se Carlo Puri Negri, capo di un’altra società in difficoltà come Pirelli Re, nel 2008 ha incassato 2 milioni, che si sommano ai 33,7 del periodo 2001-2006; e se nello stesso periodo nessun banchiere tra Passera (Intesa), Profumo (Unicredit) e Nagel (Mediobanca) ha portato a casa meno di 30 milioni, allora viene in mente John Pierpont Morgan, leggendario banchiere che all’inizio del secolo scorso diceva che in nessun caso il presidente di una società doveva superare quello medio dei suoi dipendenti moltiplicato per venti. E questo è il punto: ci vuole proporzione.

Se lo stipendio medio di un impiegato è nell’ordine dei 25mila euro annui, secondo JP Morgan il supermanager dovrebbe stare dalle parti dei 500mila. E che si arrivi pure al milione, dollari o euro non fa differenza, come piacerebbe al signor Bonaventura. Ma senza più perdere il senso, prezioso, della misura.

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