Lucca - Le sue mani non tremano. Ha appena compiuto 93 anni e quando guarda fuori dalla finestra un punto imprecisato al largo dell’amatissimo Tirreno, Manlio Cancogni non si interrompe, non si lascia distrarre né dalle azzurre lontananze né dalla nostalgia, ma continua a parlare, preciso come un giornalista - lo è stato, tra i maggiori degli ultimi cinquant’anni - e poetico come un narratore di razza - ed è stato anche questo, con più di venti libri di romanzi o racconti alle spalle. Oggi ha smesso di scrivere. «Con mio grande sollievo», dice scherzando. «Era come una malattia».
Lo incontriamo nella sua casa a Marina di Pietrasanta e, trattandosi di un «maledetto toscano», la prima cosa che definisce, campanilisticamente, è la «sua» Versilia: «Tra il Motrone e il Cinquale. Già verso Viareggio, tre chilometri e mezzo più a sud di qui, la luce cambia, perché finisce l’abbraccio delle Apuane. La vera Versilia è questa». Manca poco che aggiunga: «Fin dai tempi di Dante». Sul divano, c’è il Doctor Faustus di Thomas Mann. «Le prime cento pagine sono state difficili. Ora procedo meglio. Ma so già che poi mi rinfrescherò l’animo con Puškin o Stevenson. Dunque lei è del Giornale?».
Sì...
«Sa, con Montanelli ci volevamo bene. Scrivevo per il Corriere quando lui uscì con il Giornale. Sperai invano che mi telefonasse per chiedermi di collaborare. Nel 1980 ero a Cortina d’Ampezzo a presentare il libro di un amico che concorreva al Campiello. C’erano molti giornalisti, tra di loro Giorgio Soavi, che aveva seguito Montanelli nell’avventura del nuovo quotidiano. “Peccato - gli dissi - che Indro non abbia pensato a me come possibile collaboratore”. Quella notte stessa, ero nella mia stanza d’albergo, squillò il telefono. “Oh bischero! Perché non me l’hai chiesto?”. Era Montanelli. Fu l’inizio di una grande collaborazione. Mi lasciava una libertà totale. Scrivevo dall’America, dov’ero finito a insegnare e dove sono rimasto per tanti anni, usando New York come un campo podistico - camminavo tantissimo - e sentendo appieno la solitudine della grande città, su cui poi scrissi Sposi a Manhattan. Ma avevo la mia famiglia con me».
Lei ha scritto romanzi finiti poi nelle storie letterarie e fatto scoop giornalistici come quello epocale del 1956, «Capitale corrotta = nazione infetta», una “connection” ante litteram tra Vaticano e finanza statale. Oggi è difficile ritrovare nella stessa persona il giornalista d’inchiesta e il letterato. Perché?
«Prendiamola così. C’è un’insofferenza per quella che una volta era la terza pagina. L’elzeviro - che può ben avere un andamento narrativo, quasi di divagazione - è stato abbandonato. Racconti sui quotidiani se ne vedono pochissimi. Eppure una volta i giornalisti erano innanzitutto scrittori, semplicemente scrittori che si “specializzavano”. E fino alla seconda guerra mondiale gli scrittori iniziavano con dei racconti, che venivano letti dai loro colleghi e persino recensiti. Quando Carlo Cassola pubblicò La visita sulla rivista fiorentina Letteratura, Giansiro Ferrata lo recensì sulla milanese Corrente! Immagini oggi un racconto che appare sul Giornale e viene recensito dalla Stampa! Impossibile! C’è da dire che anche le riviste letterarie, dello spessore di quelle degli anni Trenta, sono scomparse. La letteratura allora non perdeva valore per il fatto di essere pubblicata su un quotidiano o un periodico. Poi il ’45 segnò la fine del racconto».
Che accadde?
«Tutti a scrivere romanzi. Peggio, romanzi “impegnati”, engagé: sui contadini, sugli operai, sui poveri. Il neorealismo ha ucciso il racconto. Ci furono anche delle ragioni pratiche, oggi spinte all’estremo dagli editori: i romanzi possono concorrere a premi letterari che portano visibilità... Anch’io cedetti alla moda romanzesca, scrissi Al sole di settembre, Adua e altri. Alcuni li ho ancora nel cassetto. Ma del romanzo io non avevo il respiro - persino fisico, il romanziere è un ruminante che sta ore e ore alla scrivania - né la capacità di inventare e costruire un’architettura. Vedevo il romanzo, piuttosto, come una serie di illuminazioni poetiche. Negli anni Ottanta ritornai al racconto, scrivendone più di cento, pubblicati in plaquette da piccoli editore d’arte, come Pananti di Firenze».
Il ritorno a una misura breve è stato influenzato dalla sua lunga esperienza giornalistica?
«In passato spesso fare lo scrittore e fare il giornalista coincideva. Si trascura troppo questa contiguità tra i due mestieri. Oggi vedo dei quotidiani orribili, specie di tabloid fitti di notizie non interessanti e scritte male, un giornalismo schiacciato dalla tv. È difficile che i reportage contemporanei facciano concorrenza a quelli di Moravia, Piovene, Emanuelli. Moravia lo trovo migliore nei reportage, che non hanno quella lingua meccanica, metallica, dei suoi romanzi. Ai giovani giornalisti suggerisco: scrivete racconti!».
Ci sono oggi quotidiani che affrontano grandi temi tipici della narrativa, Dio, la religione, l’amore...
«Sì, leggevo il Foglio, non lo leggo più. Sono passato all’Osservatore Romano. Avverto comunque questo ritorno di “spirito”: parola che per decenni i giornalisti non potevano quasi usare. Tutto doveva essere “calato nella storia”, come volevano i radicaloni marxisti intrisi dell’eredità di Croce, persino di Gentile: ne ricordo certi dell’Espresso per cui tutto non era altro che storia e storicismo, un opporsi di fini e obiettivi. Un’intransigenza limitante e stupida. Io, per me, ho sempre creduto di essere ateo, ma nel mentre che professavo questo ateismo ne ero terrorizzato, forse perché trascendenza e senso della morte, in qualche modo, non mi sono mai mancati. A sei anni camminavo con la mano sul cuore aspettando a ogni momento la fine dei battiti. Nel 1993 questo mio spirito religioso tenuto per decenni “a bagnomaria” si è concretizzato in una conversione».
La Chiesa nel complesso non sta passando un buon momento. Nemmeno mediatico...
«Wojtyla ha riempito le piazze ma non le chiese. Ora sembra che Ratzinger voglia riconquistare l’interiorità profonda delle persone. E forse, così, risorgeranno anche quei movimenti mistici e quegli ordini religiosi di cui oggi non abbiamo quasi più nessuna traccia. Una responsabilità di ciò possono avercela, tra gli altri, pure i mass media e la loro passione per la mondanità: giornali e tv hanno un gran appetito, e di tutto. Un monaco che si ritira su una colonna in mezzo al deserto diventerebbe subito spettacolo, a prezzo di una religiosità più profonda e meno visibile».
Una religiosità troppo discreta per poter essere intercettata dal mondo “dell’informazione”...
«Appunto. Ma anche in letteratura accade lo stesso. Perché quel grandissimo romanzo che è I Promessi sposi è così sottovalutato da noi? La vulgata vorrebbe dare la colpa alla scuola, in realtà si evita di leggerlo perché è un libro profondamente cattolico. Anna Karenina, Manon Lescaut, Madame Bovary: tutte peccatrici non pentite, e di fatto hanno successo. Prenda Lucia, invece. È troppo impegnativa come figura. E allora la si liquida come noiosa o bigotta, troppo affezionata alla verginità. Per non parlare delle grossolane sciocchezze che Gramsci disse intorno al romanzo del Manzoni, che davvero depongono poco a favore della sua libertà intellettuale».
A 93 anni, che cos’è la vecchiaia?
«Oh, le dirò: è l’età ideale. L’età dell’allegria. E le confesso che penso molto, molto meno alla morte di quanto facevo un tempo».
I suoi occhi chiari sembrano appuntarsi, senza tristezza, su un ricordo improvviso, e poi ritornano al Tirreno, azzurro là fuori. E un po’ di nostalgia, alla fine, affiora: precisa nei dettagli, quasi visiva, come quando si è amato davvero le cose che si sono perdute: «Una volta questa strada costiera che ci separa dal mare non esisteva. È stata fatta nel 1932. Prima, c’era solo l’immensa spiaggia sabbiosa, con le “razze” di falasco dove ci si riparava dal sole e le capanne di rami e fogliame che venivano bruciate a settembre.
La spiaggia era punteggiata di farfalle e di fiori gialli, le “belle di notte”. Volgendo le spalle al mare, c’era una piccola depressione con ontani, frassini, pioppi, e poi i campi, fino alla ferrovia. E poi le Apuane. Le fritture di parazzi e la zuppa di arselle erano ottime».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.