Caro direttore ti racconto il tuo funerale

Caro Enzo Biagi, anzi caro direttore, è così che l’ho chiamata per vent’anni, sono accaduti alcuni fatti curiosi al funerale di cui lei è stato involontario protagonista, ieri mattina a Pianaccio, vale a dire nella casa di Dio, perché è qui che perfino le strade muoiono. Cose minime, che non saranno certo sfuggite al suo occhio di cronista.
C’erano centinaia di persone assiepate fuori dalla chiesetta in cui venne battezzato 87 anni fa. Dentro, solo preti, familiari, direttori, autorità. Oso credere che sia stato lei a guidare i passi di chi, nonostante qualche linea di febbre, non se la sentiva di mancare al commiato. Ha voluto farmi giungere fino a questa remota piazzetta dell’Appennino tosco-emiliano in auto, anziché con gli autobus navetta, proprio nell’istante in cui arrivava anche il presidente del Consiglio.
Così, sospinto da una fiumana di cineoperatori, mi sono ritrovato dentro senza merito. Non c’era posto per uno spillo, persone strette le une alle altre. Eppure l’ultimo banco della navata di sinistra - di destra per il celebrante, lo vede bene che è sempre questione di punti di vista - era completamente vuoto. Lo presidiava un agente della sicurezza, uno di quegli impomatati bionici col filo spiralato della ricetrasmittente che esce dall’orecchio. «Prego», s’è scostato, e l’ha lasciato tutto a me. Mi sono sentito un ladro. Ho guardato alle mie spalle: dal muro mi sorrideva in foto il «suo» don Giovanni Fornasini, l’angelo di Marzabotto. C’era il manifesto dell’ordinazione sacerdotale: 25 luglio 1942. Un anno dopo, stessa data, avrebbe fatto suonare a festa le campane per la caduta di Mussolini. Un altro anno, 13 ottobre 1944, e l’avrebbero ucciso i nazisti mentre dava sepoltura ai suoi parrocchiani trucidati nella rappresaglia: le Ss gli avevano vietato di farlo.
La navata di sinistra è quella che ha i banchi offerti in memoria di Anna Rubini Biagi, la più piccola delle sue tre figlie, la lettera A dell’alfabeto domestico, il più importante, morta nel 2003, un ictus a soli 47 anni. La B e la C, Bice e Carla, stavano presso l’altare, vicino a lei. Tre nomi di battesimo bisillabi: anche in famiglia ha sempre avuto il dono della sintesi. La navata di destra è quella che ha i banchi offerti in memoria di Lucia Ghetti Biagi, la «ragazza di una volta», 60 anni passati insieme.
Sbarrate le porte della chiesetta. I suoi lettori fuori. Ma ecco che una signora bionda del cerimoniale ha chiesto a me - e chi ero io? - il permesso di far accomodare al mio fianco nel banco vuoto un’anziana che s’era voluta intrufolare a tutti i costi e dava in escandescenze. Piangeva senza requie. Strillava che doveva vedere il suo Enzo, abbracciare la bara. «Ssst!», la scongiurava la donna bionda, amorevole e compita. Non c’era verso. Allora le ha preso la testa fra le mani, l’ha baciata teneramente. Niente da fare.
S’è girata Daniela Hamaui, direttore dell’Espresso, che sedeva due banchi più avanti accanto a una suora: guardava attraverso i suoi occhialetti di bachelite nera, guardava e non capiva. A volte è dura anche per i direttori interpretare i fatti, vero direttore? S’è girato Claudio Cappon, direttore generale della Rai, l’unico in giacca a vento, munita persino di cappuccio, anche se fuori splendeva tiepido il sole. S’è girato il presidente Claudio Petruccioli. Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera, e Ferruccio de Bortoli, direttore del Sole 24 Ore, hanno guardato di sguincio, con la coda dell’occhio. Insomma, i suoi direttori, i direttori per cui lei, direttore, ha lavorato una vita, non capivano quale piega potessero prendere gli eventi.
«Dopo, dopo potrà salutarlo», ho sussurrato all’anziana, che frugava nella borsa di Alviero Martini alla ricerca di un altro fazzoletto. S’è acquietata. «Siamo qui tutti per lo stesso motivo», l’ha rampognata una giovane carina. «Ma io sono una parente», ha ribattuto l’inconsolabile. Avrei voluto dirle: forse oggi siamo tutti parenti.
Il parroco ha preso le mosse dal vento: ha spiegato che martedì scorso soffiava molto forte e che s’è portato via il nostro fratello Enzo. L’aveva suggestionato la poesia Soldati di Ungaretti che lei, dal suo letto di dolore alla clinica Capitanio, aveva recitato per un’infermiera desiderosa di sapere come stesse il grande giornalista: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». A me ha ricordato la risposta data da un ragazzino all’inviato Biagi che lo interrogava su Dio: «Dio viene con il vento».
Un tenore dall’incerto mestiere ma dall’empito straziante le ha cantato l’Ave verum di Mozart. I partigiani, all’esterno, Bella ciao. Per due volte, in chiesa e al cimitero, il coro ha intonato Signore delle cime. L’ha scritta Bepi De Marzi, un musicista delle mie parti, per salutare chi muore in montagna. Non c’entrava niente con lei, direttore, che al massimo s’è concesso qualche passeggiata a Cortina. Ma è un brano che fa sempre piangere, ed è stata una consolazione sentirla accompagnata da una melodia veneta mentre la bara si copriva di terra.
Il cardinale Ersilio Tonini, diafano, è arrivato in chiesa al momento della consacrazione, schiacciato dal peso dei suoi 93 anni e della sua santità. Ha riferito d’aver udito dalle labbra dell’amico scrittore queste parole: «Credo in Dio perché lo sento in me». Un prete che lei ha amato, don Primo Mazzolari, lo diceva in un altro modo, ma il senso è lo stesso: «Due mani che mi prendono quando più nessuna mano mi tiene: ecco Dio». La tiene. Ora è in mani sicure.
Al momento dell’eucaristia Marco Travaglio ha lasciato da solo nel banco Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, ed è andato a comunicarsi. Un’ape s’è posata sulla mia sciarpa. Che voleva? In questa stagione, poi? Che segno sarà stato? Ha planato sull’inginocchiatoio ed è rimasta immobile. Ho provato a scostarla: morta. L’ape operosa aveva chiuso le ali.
Sua eminenza ha benedetto il feretro: «Enzo aveva profondità interiori ancora intatte. Le aveva apprese qui». Ha ricordato la vibrata, la campanella che suonava un quarto d’ora prima della messa, e mamma Biagi che si preparava svelta per non arrivare in ritardo, e insegnava al figlio a recitare ogni sera l’atto di dolore, «così se muori nel sonno non vai all’inferno».
«La traditio!», ha gridato l’esile porporato. «La nostra fede è un atto di consegna. Ha reso le generazioni più robuste. La coscienza pulita è la ricchezza dei poveri». Ha guardato i genitori e tre bambini sotto la nona stazione della via crucis: «Il cuore! Il cuore! Il cuore! Ripetiamolo tutti insieme, con i vostri figli: è molto bello volersi bene».
Basta così, direttore, basta incenso. A proposito, ha sentito che cos’è scappato di dire al cardinale Tonini invece di «un pezzo di pane»? È scivolato sulla vocale più sciagurata. Abbiamo riso dentro. È stato tutto così intimo, così naturale, svarione compreso.
Ora lasci che le sveli un piccolo segreto.

Se io lavoro in questo giornale, è perché fui assunto in casa di sua figlia, 12 anni fa, un giorno di novembre, come oggi. L’ho ricordato a Bice fuori dal cimitero. Mi ha abbracciato: «Vi siete voluti tanto bene». Fino a ieri non sapevo quanto.
Stefano Lorenzetto
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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