Caro poeta, che il tuo scrivere sia per sempre. O non sia

I dibattiti sui giornali nascono sempre con le peggiori intenzioni: ti rimproverano di non aver letto il libro X e loro non leggono neppure l’articolo sul libro X, estraggono a sorte una frase e la dilaniano. Così, dopo il mio articolo di giovedì 4 marzo su queste pagine, i poeti Adriano Napoli e Giancarlo Pontiggia nei loro interventi dei giorni scorsi mi mettono in bocca la parola «poetica» mentre io parlo di «etica», e se dico un’ovvietà del tipo Mario Luzi è meglio di Maurizio Cucchi mi accusano di essere un selvaggio e un ignorante. Invece, sono una creatura semplice e preferisco ripetere leggete Luzi piuttosto che Cucchi, piuttosto che cavarmela con una manciata di sofismi accademici per salvare capra e cavoli, lo scemo con il sapiente.
Ma ti capisco, mio lettore e mio fratello, capisco che da questa cagnara poetica non cavi neppure un ululato, e perciò in questa drastica disputa mi rivolgo a te. Fidati, non ho nulla da proteggere e nessun territorio da segnare. Caro lettore, ti do un consiglio di lettura. Al posto dell’antologia Le api dell’invisibile (Medusa) curata da Adriano Napoli, indiscutibile perché c’è poco di cui discutere, leggi quella curata da Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi (Bur, 2005): oltre che trovare un mucchio di testi, così puoi giudicare come si deve la cattedrale critica, troverai una truppa di uomini, «personalità singole, a volte isolate \, còlte nello spicco individuale (e non esemplare o esemplificativo di qualcos’altro) della loro poesia, con una frequente attenzione alla disobbedienza al tema». Vedi se ti piace.
Caro lettore, chiedi molto ai poeti, chiedi tutto. Tutti vorrebbero salire sul carrozzone della Storia e della critica letteraria, tutti vorrebbero essere beatificati almeno con una nota nella Garzantina o nell’antologia del liceo, ma la letteratura non ha padri né padrini né padroni, non ha figli né figliastri, ragiona per assoluti. Per cui uno scrittore sa che si confronterà sempre con Dante, con Shakespeare, con Omero, e se vuole che lo leggiamo dovrà dirci qualcosa che non hanno già detto costoro, per lo meno, come dice Isaac B. Singer, deve «avere la convinzione di essere l’unico che possa scrivere quella particolare storia». Altrimenti, getta lo scrittore e il poeta dalla finestra. Varlam Salamov, dopo una ventina di anni nei Gulag, confessa a Boris Pasternak: è grazie alle tue poesie che non sono impazzito, che nel luogo dell’orrore sono restato un uomo. Più in là con gli anni Varlam confesserà, ricordando la prima visita a Pasternak: «Io ero andato da lui per imparare a vivere, non per imparare a scrivere». Pasternak ci resta secco: la poesia ha davvero la forza di salvare una vita umana? Chiedi ai poeti di salvarti la vita, caro lettore.
Invece ai poeti dico: scrivete pensando a chi vivrà fra 10.000 anni. Che lingua parlerà quell’uomo? Di cosa si ciberà? Forse camminerà a quattro zampe, utilizzando la bocca come una ventosa.

Pensate a quell’uomo che ritornerà all’alfabeto grazie alla vostra poesia, che attraverso di voi conoscerà cosa è stato un uomo. L’uomo tornerà uomo grazie alla vostra poesia. Non vi sembra un compito grandissimo, ma allo stesso tempo gratuito, di una umiltà spiazzante? Poeti, incaricatevi di quest’uomo.

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