Già Quintino Sella, ministro del primo governo Rattazzi del 1862, dopo aver introdotto la famigerata tassa sul macinato, decise di mettere la lotta all’evasione tra le priorità del suo programma. Dunque sono 150 anni che gli italiani evadono le tasse: di più non sarebbe possibile perché prima non c’era nemmeno l’Italia. E la battaglia continua, come si vede in questi giorni dal caso Agnelli e dall’indagine dell’Agenzia delle entrate su 170mila contribuenti, per lo più sospettati di avere conti non dichiarati all’estero.
Ma attenzione alle scorciatoie pericolose, al fumo negli occhi. Perché ci vuole niente a confondere le acque sbattendo sullo scranno degli imputati dei normali correntisti italiani, con il rischio di fare proprio il gioco dei veri furbetti. È quello che accade se, cavalcando la rabbia per il piccolo e grande evasore, si sconfina nel facile giustizialismo. Così, in questo clima, può accadere che 214 clienti di filiali in territorio italiano finiscano in prima pagina su un quotidiano come 200 «furboni». I nomi non ci sono, ma potrebbero essere rivelati da un momento all’altro. Conti definiti «sospetti» per 2 soli motivi: sono in media elevati (oltre 2 milioni) e la banca in questione è svizzera. Attenzione, non è «in» Svizzera, dove lo stesso presidente Obama ci ha messo un anno intero - e manca ancora la firma sull’accordo tra i due governi - per cavare qualche ragno dal buco nero del segreto bancario. Ma semplicemente è controllata dalla casamadre svizzera.
Come l’Ubs, per esempio, dotata di regolare licenza a operare in Italia, al pari di decine di altre banche straniere, centinaia di istituti italiani. Pensateci bene: avere un conto corrente o una gestione patrimoniale nello sportello sotto casa nostra, sia esso di una banca italiana o straniera, cosa cambia? Nulla. È solo una scelta di mercato. Resa possibile proprio grazie all’apertura delle frontiere alle banche estere, che peraltro hanno contribuito assai ad abbassare i costi e le commissioni. Una scelta che vale né più né meno di quella di acquistare una Fiat piuttosto che una Volkswagen o una Toyota. Non è chiaro perché chi sceglie di farsi gestire i propri risparmi dal marchio esotico sia più sospetto di chi sceglie la Popolare di Milano o la Cassa di Risparmio di Città di Castello.
Per quale motivo i nomi e i cognomi di questi signori, in possesso del quotidiano in questione, dovrebbero essere resi pubblici? Quale assunto fa di loro dei potenziali evasori più di quanto non lo siano altri correntisti qualunque? Non sarebbe, invece, una violazione clamorosa di ogni principio di riservatezza, una gogna mediatica? Ci sembra che il solo minacciare tale pubblicazione, che riguarderebbe stilisti, star dello spettacolo e imprenditori italiani, abbia un sapore molto sgradevole. Nulla, ma proprio nulla a che vedere con la lotta all’evasione fiscale.
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