Chi decide quando la crisi è finita davvero

Non c’è l’arbitro con i tre fischi finali o la bandiera a scacchi e non ci saranno neanche i fuochi d’artificio in piazza o le luci alzate all’improvviso e sparate insieme a musiche banali che segnano la conclusione di un concerto rock. Non aspettatevi segnali così chiari, ma qualcosa che certifichi la fine di una (di questa) crisi economica ci deve pur essere. La crisi non può diventare una versione per economisti o per politici dei racconti di Sherazade. E neanche la protagonista delle moderne favole per bambini: buoni, se no chiamo la crisi!
Ma quando finisce una (questa) crisi? Gli odiati economisti hanno un loro metodo di valutazione e, in sostanza, dicono che le crisi finiscono quando le cose smettono di peggiorare. Non c’è bisogno che tutto torni come era prima, basta che si interrompa il cammino verso il basso e che cominci la risalita. Vi sembra un criterio troppo ottimistico? Bisogna comunque riconoscere che lo stesso criterio viene applicato, a rovescio, per decretare l’inizio di una fase tribolata, e quindi la comunità degli economisti (in questo caso in versione gufi) comincia a parlare di crisi quando le cose vanno ancora bene ma smettono di migliorare. È per questo che il barometro dell’economia indicava crisi già nel 2007, quando i livelli di produzione, posti di lavoro e consumi, erano ancora alti, e ha invece spostato le sue lancette verso la ripresa già nel 2009, in condizioni ben peggiori per tutti gli indici fondamentali. E proprio per non farsi prendere per matti i tecnici dell’economia hanno inventato un altro criterio di valutazione e hanno cominciato a parlare di «ritorno della produzione ai livelli precedenti alla crisi», traguardo che già da più di un anno è stato fissato (pur nel terreno scivoloso delle previsioni) al 2012, mese più mese meno. Insomma, secondo i criteri normalmente disponibili la crisi è già finita e i suoi effetti andranno a esaurirsi completamente nel corso dell’anno appena cominciato.
E allora che ne è di tutti gli altri rischi, di tutte le altre minacce alla ripresa italiana e mondiale? Non sono stati certo cancellati, ma, potremmo dire, sono i nostri vecchi, cari, rischi e minacce (comprendendo tra questi le inevitabili instabilità e voracità dei mercati finanziari). Per l’Italia, poi, niente di nuovo: debito pubblico altissimo, mercato del lavoro inefficiente, bassi investimenti, burocrazia paludosa, pressione micidiale della concorrenza internazionale che va a colpire proprio le nostre aziende più dinamiche, quelle piccole e medie che gli spazi di mercato se li devono conquistare ogni giorno. Vogliamo chiamare crisi questo insieme di problemi storici? Chi vuole, ovviamente, può farlo, ma fa un danno alla chiarezza. Se tutto (nel discorso pubblico) è crisi niente è crisi. Se tutto è crisi l’Italia (e magari anche il mondo) si trasforma in un Ballarò perenne. Serve a qualcosa? Si direbbe di no in generale, certamente non serve a chi governa.

La crisi (nel vero senso della parola) va affrontata con metodi da pronto soccorso; per i mali storici dell’economia e della società italiane servirebbero cure illuminate e ovviamente non immediate (e servirebbe un po’ di visione sul futuro, cioè l’esatto contrario del comportamento di chi agisce credendo che una crisi si supera restaurando esattamente tutto com’era prima). Confondendo questi due piani di azione si fa solo molta confusione. Il Ballarò eterno fa comodo solo a chi vi partecipa.

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