La Cina ad Harvard per capire i giornalisti

Benny Casadei Lucchi

nostro inviato a Pechino

Spostando a manate lo smog che si libra nell’aria, si vedono gru dappertutto, operai appesi a corde che lavorano a 50 metri da terra per distruggere vecchi palazzi e costruire edifici dallo spirito olimpico: per cui nuovi, luccicanti, che sappiano infondere tranquillità e l’opulenta sensazione del benessere. Mancano meno di due anni ai Giochi di Pechino, forse i più attesi di sempre visto che l’Occidente impaurito ha ormai bisogno di conoscere la Cina, e visto che il governo ha una gran voglia di non spaventarlo e dare un’immagine nuova di sé. Mancano seicentottantaquattro giorni alla cerimonia inaugurale dei XXIX Giochi olimpici, scandiscono i mega display piazzati ovunque nella città, e statene certi, quando di giorni ne mancheranno sessanta o trenta, non sentiremo parlare di ritardi e di caos e di stadi e piscine e strade non ancora terminate. Qui non si scherza. Lo sanno bene gli operai appesi lassù.
L’unica vera, grande, preoccupazione del governo, e con esso di tutti i suoi uomini piazzati su e giù per la filiera di comando del Comitato organizzatore dei Giochi (Bocog si chiama, Beijing organizing Committee for the olympic games), è un’altra: siamo noi. La stampa, le tv, i giornali, i microfoni, i registratori, le telecamere e le domande scomode. Soprattutto quelle. In un Paese che al momento di concedere il visto a un giornalista chiede marca, modello e numero di matricola di qualsiasi strumento elettronico, un esercito di 5mila e seicento reporter che con un gran balzo salta la Muraglia e gli piomba compatto in casa armato di domande politicamente scorrette, non è proprio il massimo. Per questo, da oltre due anni, sono corsi ai ripari. In silenzio, alla loro maniera.
Fin dal 2004, appena terminati i Giochi di Atene, il governo ha infatti deciso di far frequentare dei master di comunicazione a molti suoi alti dirigenti. Obiettivo: imparare a rispondere alle domande imbarazzanti. I dirigenti hanno anche seguito corsi in cui i docenti li addestravano sulle tipiche curiosità mediatiche occidentali, in modo da non trovarsi spiazzati al primo quesito sul doping o, peggio, sul Tibet. Non solo: tra le materie di studio c’era come saper gestire la tensione e l’approccio con l’interlocutore. Tutti master organizzati non a Shanghai, ma proprio nel regno della libertà mediatica: gli Stati Uniti, in università prestigiose come Berkeley e Harvard.
Insomma, una full immersion di libertà di stampa, se proprio vogliamo trovargli un titolo. Perché in Cina la stampa libera non è, perché ci sono ancora giornalisti in manette, perché l’informazione è controllata, perché su tutto governa l’agenzia ufficiale di stampa, la Xinhua; e non a caso, in diverse posizioni chiave degli uffici media olimpici, ci sono giornalisti con anni di esperienza dentro la grande agenzia. Quanto grande? Per rendere l’idea, oltre 12mila dipendenti e 130 uffici in Cina e all’estero.
Forse per questo si prova un orgoglioso piacere di fronte alle parole di benvenuto di Jiang Xiaoyu, vice presidente del Bocog, che ieri ha così accolto i quasi trecento tra rappresentati dei media, giornalisti e membri dei vari comitati olimpici giunti a Pechino per fare il punto sullo stato dei lavori e per discutere dei bisogni dei media. Bisogni dei media in Cina? Sembra un’altra rivoluzione.

«Mancano meno di due anni al via - ha spiegato Xiaoyu - e i Giochi rappresentano un evento storico per Pechino, per la Cina e per tutto il movimento olimpico; stiamo lavorando per fare una manifestazione di alto livello, ma tutto questo non sarebbe possibile senza il contributo della stampa». Nessuno ci dirà mai se il signor Xiaoyu ha frequentato i suddetti master di Harvard o Berkeley, ma visto che la frase gli è venuta bene, facciamo finta che sia tutta farina del suo sacco.

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