Ci si mettono anche cineasti di lungo corso, registi blasonati come Luc Besson o attori dalla solida carriera hollywoodiana come Andy Garcia: il cinema internazionale e d’autore si schiera contro i regimi ancora in vita. E continua a fare paura ai dittatori più retrivi, come dimostra l’arresto di Jafar Panahi, il regista iraniano già segregato a inizio 2010 e poi bloccato nel suo Paese, deciso proprio ieri dal governo di Ahmadinejad. Registi e autori rispolverano l’arma della denuncia della riduzione dei diritti civili, la libertà di pensiero e la democrazia, in qualche caso anche della pratica della tortura e dei lavori forzati. Sanzioni e metodi tuttora in vigore in alcuni Paesi orientali, a Cuba, fino agli Stati dell’islam fondamentalista. Insomma, torna la grande tradizione del cinema politico, della settima arte usata come strumento di divulgazione delle ingiustizie perpetrate soprattutto dai governi comunisti dell’Est europeo (la cinematografia di Tarkovskji) e dell’estremo Oriente ( Urla del silenzio di Joffé) e da quelli militari del Sudamerica ( Brazil di Terry Gilliam). Uno strumento che continua a spaventare tiranni di tutti gli orientamenti. Del resto, tanto per stare in argomento, se uno come Mussolini riteneva che «il cinema è l’arma più potente» qualche ragione ci doveva pur essere. I suoi scopi erano di propaganda, ma è fuor di dubbio che quell’arma possa essere usata per obiettivi opposti. Qualche anno fa era toccato all’esule cubano Andy Garcia raccontare gli eccessi della rivoluzione castrista nel suo The Lost City . Nella Avana dominata dal dittatore Batista l’espandersi del potere di Fidel Castro era riuscito a restringere ancora di più gli spazi di libertà... Ora il nuovo cinema di denuncia si sposta in Oriente e in Asia. Da poche settimane Luc Besson ha iniziato a girare The Lady , la biografia di Aung San Suu Kyi, il Premio Nobel per la pace che lotta contro il regime militare della Birmania. È una donna ancora «più eroica di Giovanna d’Arco», ha detto di lei il regista francese che l’ha paragonata anche a Gandhi. «Quante volte nel corso della storia è esistita una donna che non bestemmia, non ruba, non fa mai nulla di illegale eppure viene rinchiusa agli arresti domiciliari per 24 anni?». Nelle prime immagini dal set aperto in Thailandia si vede l’attrice Michelle Yeoh nei panni della Mandela birmana. Presto le riprese si sposteranno a Oxford, mentre l’uscita del film è prevista per il prossimo autunno. Più ravvicinata dovrebbe essere invece la programmazione de L’ultimo ballerino di Mao , tratto dall’omonima biografia di Li Cunxin, il Barishnykov cinese che ora vive in Australia con la moglie, anche lei ex ballerina, e i suoi tre figli. Nel libro che il regista Bruce Beresford (Oscar per A spasso con Daisy ) ha portato sul grande schermo, Cunxin ha raccontato la mortificazione nella Cina degli anni Settanta quando iniziò a eseguire quelle coreografie con le scarpette da ballo indossate sulla tuta di ordinanza maoista. Poi le minacce e le rappresaglie, fino alla decisione di rimanere negli Stati Uniti per poter finalmente ballare Il lago dei cigni e Don Chisciotte . «La nuova generazione di leader cinesi mi ha perdonato. Mentre per i vecchi dirigenti io rimango un disertore », ha dichiarato Cunxin. Che non crede sia ancora venuto il tempo per mostrare in Cina il film di cui è protagonista. Ancor meno probabilità di trovare distribuzione in patria ce l’ha Il fossato ( The Ditch ) di Wang Bing, terrificante documento della Cina degli anni Sessanta presentato in concorso come film a sorpresa all’ultima Mostra di Venezia. Una testimonianza atroce della brutalità cui può condurre l’ideologia che spingeva il governo a condannare ai lavori forzati migliaia di cittadini «dissidenti di destra» a causa delle loro critiche al Partito comunista o semplicemente della loro estrazione sociale. Tuttavia, a Venezia il regista ha rifiutato l’espressione «cinema di denuncia» parlando genericamente di «critica costruttiva » per favorire il «rispetto tra le persone». Forse perché timoroso della reazione delle autorità di Pechino, allergiche alle contestazioni anche se declinate al passato. Chi a Venezia invece non ha potuto accompagnare il proprio film è stato il regista iraniano Jafar Panahi, già vincitore del Leone d’oro nel 2000 con Il cerchio . Nella sezione delle Giornate degli Autori era previsto The Accordion ma, dopo 88 giorni di detenzione, le autorità di Teheran gli avevano impedito di arrivare in Laguna. Dove Panahi aveva inviato un messaggio: «Nonostante sia stato rilasciato, non sono ancora libero di viaggiare fuori dal mio Paese e frequentare festival cinematografici», aveva scritto. «Inoltre, mi è stato ufficialmente proibito di fare film negli ultimi cinque anni. Quando a un filmmaker non è consentito girare film, è come se la sua mente fosse incarcerata.
Forse non sarà rinchiuso in una piccola cella, ma continua a vagare in un carcere molto più grande». Da ieri, Panahi è di nuovo rinchiuso in una piccola cella. Ci dovrebbe restare per sei anni. Invece film non potrà girarne per venti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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