da Pechino
Come esposizioni universali e campionati del mondo, le Olimpiadi tutto sono fuorché eventi neutri. Derivano da grandi sforzi collettivi e servono ai popoli per mostrare quel che sanno fare pacificamente, onde altri popoli ne deducano quel che saprebbero fare bellicosamente. Sono un modo per «flettere i muscoli», per dirla in linguaggio diplomatico; sono una ritualizzazione della violenza, per dirla in linguaggio etologico.
Maggiore è la potenza che ospita le Olimpiadi, maggiore è il numero dei destinatari del messaggio. Si rammentino quelle di Mosca nel 1980, giunte quando la potenza sovietica pareva all'apice, dopo la vittoria nel Vietnam, dopo la cacciata degli americani anche dall'Iran, dopo un intervento militare che pareva di routine (Ungheria, Cecoslovacchia...) in Afghanistan. Tesi a recuperare un prestigio appannato, gli Stati Uniti sabotarono quelle Olimpiadi, in nome di «diritti dell'uomo» che nel 1978 avevano lasciato freddi i tifosi ai Mondiali di calcio nell'Argentina dei generali. Solo propaganda? Undici anni dopo l'Unione Sovietica non esisteva più.
Quando la Cina ottenne per Pechino le Olimpiadi del 2008, ogni statista cinese unì soddisfazione e preoccupazione. La sfida era tale da far tremare i polsi, tanto più a un Paese che, quando s'era candidato la prima volta, era solo una «promessa» del Terzo mondo, tanto che gli venne preferita l'Australia. Un Paese che s'era tenuto fino ad allora strettamente fedele all'insegnamento di Deng, il Piccolo Timoniere, che non era un Rodomonte e diceva: «Tacere sulle proprie capacità, aspettare il momento giusto».
Ora il momento incombe: mancano meno di quindici mesi alla cerimonia inaugurale, affidata al regista Zhang Yimou, che in Italia è noto più ai cinefili che ai sinologi, anche se qualcuno ricorda la sua versione di Turandot al Maggio musicale fiorentino. Da lui verrà dunque qualcosa di memorabile, che finirà con l'esser paragonato - da cronisti senza idee - al lavoro di Leni Riefenstahl per le Olimpiadi di Berlino del 1936, quando invece lei ebbe solo l'incarico di filmare ciò che un altro, Albert Speer, aveva ideato.
E poi la Cina non ha la fretta che aveva la Germania: la fase critica, quando una rivoluzione scandisce i suoi ritmi sulle età del suo capo, la Cina l'ha già vissuta sotto Mao. Già sotto Deng era prevalso il senso imperiale del tempo, dove gli anni sono frazioni di millenni.
Comunque chi misura la qualità sulla quantità - gli statunitensi amano farlo - ha già statistiche. Pechino ha ultimato o sta ultimando una dozzina di centri sportivi; una nuova linea della metropolitana; una serie di grattacieli commerciali; un nuovo terminal aeroportuale; e perfino un teatro. A Pechino gli investimenti del 2006 sono stati di trecentoquaranta miliardi di yuan (circa trentaquattro miliardi di euro), centosessanta dei quali nell'immobiliare; nel 2000 erano stati di centrotrenta, novanta dei quali nell'immobiliare.
In questo contesto il problema della Cina è arginare, riducendola all'8/9 per cento, la crescita econonomica del 2007, che nei primi quattro mesi ha però raggiunto l'11 per cento. Oltre ai problemi sociali che ciò comporta, con molta gente che s'arricchisce di colpo, ma anche molta gente che perde la casa, il governo teme che un ulteriore aumento delle esportazioni abbia ripercussioni negative sia in politica estera (instaurazione di dazi), sia in economia (inflazione).
Sembrano inezie rispetto ai passi da gigante compiuti dalla Cina, ma l'età per appartenere alla classe dirigente qui è oltre la cinquantina. E chi è maturo, ha avuto un'infanzia affamata dalla crisi economica derivata dal «Grande Balzo in avanti», un'adolescenza rovinata dalla persecuzione detta rivoluzione culturale, una gioventù segnata dal catastrofico terremoto del 1976. Abbastanza per non lasciarsi prendere dall'ebbrezza del boom, grazie al quale la quarta economia del mondo è quella della Cina.
Qui, a differenza dell'Europa negli ultimi due decenni, la memoria non si confonde con la storia. Quando a evocarla non bastano i libri, ci pensa la televisione. Nei tantissimi negozi di dvd si vende un cofanetto che condensa in dieci ore la storia del mondo negli ultimi cinque secoli. Titolo: «L'ascesa delle grandi potenze». Andato in onda alla fine dell'anno scorso, a puntate, ha dato a buona parte dei cinesi la consapevolezza che i nemici di ieri (Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone, Russia) oggi possono essere partner, ma domani saranno ancora nemici, se la forza della Cina non basterà a dissuaderli.
Non solo: grande potenza sul punto di diventare superpotenza - dall'11 gennaio di quest'anno è l'unica a contendere agli Stati Uniti il controllo dello spazio coi missili antisatelliti -, la Cina deve imparare dal comportamento degli altri, evitandone gli errori. Non si tratta stavolta di copiare un modello occidentale, come fosse un abito, ma di adattare alla Cina quel che va bene per lei, per le sue dimensioni non di Stato-nazione, ma di Stato-continente. E quel che colpisce l'europeo è il recupero in tempi relativamente brevi del «pensare per continenti». E' vero che in questo inglesi, americani e russi sono stati severi maestri, ma anche i «vicini» hanno capito le reali dimensioni del Grande Gioco, che non si svolge più solo nelle pianure asiatiche, ma anche e soprattutto negli oceani.
Consapevole qui della sua inferiorità, la Cina cerca via terra approvvigionamenti di materie prime. Ma intanto comincia a farsi vedere anche la sua Marina. C'è chi le attribuisce gli atti di pirateria nello stretto di Malacca, per impadronirsi di ciò di cui non si potrebbe dotare normalmente. Ma a questa presenza senza bandiera se ne unisce una dichiarata, come ha potuto notare la portaerei americana che manovrava al largo di Okinawa, quando ha visto emergere nei paraggi un sommergibile che a quelle manovre non era invitato.
Si parla anche di un aereo a decollo breve, che si giustifica solo su una portaerei. Sono una prima risposta al «patto di sicurezza» firmato lo scorso 13 marzo da Giappone e Australia, principali alleati degli Stati Uniti nella regione: un patto tripartito - per il Giappone non è il primo - con un nemico evidente, la Cina. E dev'essere davvero un bel timore per spingere i nemici del 1941-1945 - dopo aver cooperato in Irak - ad andare oltre, quando i rispettivi popoli non nutrono alcuna simpatia reciproca. Per trovare un caso analogo, in Europa, occorre risalire all'alleanza franco-tedesca cinquant'anni fa.
Ma la geopolitica ha le sue ragioni, che il cuore non conosce. A chi ha il cuore tenero restano le discussioni sulla democrazia rappresentativa, che qualche reduce dell'89 sulla Tien An Men e qualche reduce della Lunga Marcia di mezzo secolo prima conducono sulla stampa, in modo che Economist ed Herald Tribune possano notarle. Che le notino i cinesi è meno certo.
Superpotenza, si diceva. La parola non è ancora entrata, almeno in senso autobiografico, nel lessico della stampa e della televisione cinese. Ma è comparsa nel nome di un orologio. Chi ricorda la Guerra fredda, ricorderà anche che spesso gli orientamenti della Cina venivano resi noti non a Pechino, ma in altre capitali non allineate, per esempio Belgrado. Oggi Belgrado per i giornalisti cinesi è la città dove loro colleghi furono uccisi nel 1999 da missili americani piovuti «per sbaglio» sulla loro ambasciata, durante i bombardamenti della Nato.
No, oggi certe sfumature politiche possono apparire anche in una città cinese come Hong Kong, addirittura nei suoi negozi più eleganti, quelli della micro-catena dello chic made in China, «Shanghai Tang», che ogni anno idea e vende in esclusiva una serie di orologi.
(2. fine)
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