Clima, perché fidarsi degli esperti dell’Onu?

Egregio Granzotto, essendo una sua fedele lettrice non posso trattenermi nel bilancio di fine anno dal comunicarle che il tono non di rado sarcastico con cui commenta la campagna di sensibilizzazione sui pericoli del riscaldamento globale mi indispettisce. Posso capire una certa diffidenza nei confronti di Al Gore, che fa l’ambientalista per opportunismo politico, ma come non dare credito al Panel dell’Onu, formato dai più illustri scienziati ed esperti di mutamenti climatici? Se non ci fidiamo dell’Onu di chi ci dobbiamo fidare? La battaglia contro il riscaldamento globale è sicuramente quella più importante intrapresa dall’umanità perché è in gioco la sopravvivenza del pianeta. Scherzarci sopra non è da persona intelligente e preparata come lei per cui le consiglio di proporsi per il nuovo anno di essere meno scettico in materia.

Guardi, gentile e amabile lettrice, glielo giuro: se in me c’è un’ambizione è quella di contribuire a salvare il pianeta dall’arrostimento globale. Intendiamoci, il caldo non mi dispiace e credo sia gradito anche a lei. D’altronde, non chiamiamo forse «bel tempo» quello caldo e soleggiato? E «brutto tempo» quello freddo, piovoso? Però, se come sostiene il «panel» di qui a quindici anni la temperatura salirà fino a farci friggere le cervella, da Piacenza in giù sarà solo sabbia e le acque si alzeranno di sette metri per cui addio alle rotonde sul mare, be’ allora tocca mobilitarsi. Toccherebbe. Perché a prefigurare l’apocalisse di fuoco è, appunto, il «panel». Quando sento nominare le Nazioni Unite mi cavo il cappello, signora mia. Però quando mai ne hanno fatta una giusta? Di «panel» e di commissioni ne sfornano a getto continuo, ma il marchio Onu non basta a garantirne la competenza e la serietà. Quella dei diritti umani - ricorda? - era presieduta da un libico ed aveva nel consiglio direttivo rappresentanti del Sudan, Zimbabwe, Nepal, Congo, Cuba e Birmania, tutti regimi che come è noto tengono i diritti umani in palmo di mano. E chi c’è alla testa dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change? Un climatologo? Un geologo o un meteorologo? Macché: un economista, che coi mutamenti climatici cosa ci azzecca Dio solo lo sa.
Altro motivo di perplessità, chiamiamola così, è che la storia del riscaldamento globale (col turbo, come non bastasse) è priva di fondamento scientifico, non è, insomma, il risultato di organici e sistematici studi sul clima e le sue modificazioni. Che di qui a poco finiremo tutti arrosto è un semplice «scenario», è la prospettiva di un modello matematico. La matematica, lo dica a me che non so fare le divisioni a due cifre, non è un’opinione. Ma i risultati dei modelli matematici, per di più applicati a qualcosa di così complesso, mutevole, imprevedibile e largamente sconosciuto come il clima, lo sono. Ne vuol sapere una, sui modelli matematici? Nel 1972 la più prestigiosa delle università scientifiche, il Mit di Cambridge, ne elaborò uno che fece correre un brivido lungo la schiena dei gonzi che ci credettero. Esso stabiliva che con gli allora ritmi di sviluppo le risorse indispensabili stavano in-con-tes-ta-bil-men-te per esaurirsi. Nella fattispecie lo zinco entro il 1990, il petrolio entro il 1992, il rame e il piombo entro il 1993, il gas naturale entro il 1994 e l’alluminio entro il 2003. Tutto nero su bianco, stampato in un volume dal profetico titolo «I limiti dello sviluppo».

Sono trascorsi più di trent’anni, lo sviluppo non ha subito battute d’arresto e le risorse non si sono esaurite. Conclusione, il tasso di scientificità o se preferisce di attendibilità dei modelli matematici è inferiore a quello degli oroscopi. E infatti fa un freddo birbone, non trova?

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