Commento E Obama improvvisamente diventa ottimista

«Ce la faremo ma sarà dura»: è il penultimo messaggio di Barack Obama ai suoi connazionali. L’ultimo è: «Sarà dura, ma ce la faremo». Non è un capovolgimento di termini e neppure di priorità, ma a volte la “musica” conta più delle parole e questa volta il presidente ha voluto privilegiare la speranza e la fiducia sulla coscienza e sull’allarme, forse perché ha avvertito che i suoi onesti appelli delle scorse settimane andavano un po’ troppo nell’altro senso. L’occasione ha fatto il resto. Anche se la Casa Bianca ha scelto di non chiamarlo così, il discorso dell’altra notte davanti alle Camere riunite è stato precisamente il tradizionale messaggio sullo stato dell’Unione, cioè un consuntivo che contiene un bilancio preventivo. I dati evidentemente non sono cambiati in pochi giorni: l’America continua a dover affrontare contemporaneamente una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi bancaria, una crisi edilizia e una crisi manifatturiera, che culmina nelle angosce per la sopravvivenza dell’industria automobilistica. Un ritratto tutt’altro che lusinghiero, ma accompagnato da una promessa, un po’ più accentata, di guidare una ripresa e un rinnovamento che «tirino fuori il Paese da tutte queste crisi evitandogli al contempo un futuro di bancarotta». Più promesse e meno moniti del solito, anche se tuttora - e non si vede come potrebbe essere il contrario - più moniti che promesse. Il presidente ha difeso il suo piano di “stimolo”, comprese ulteriori iniezioni di danaro nelle banche, ma anche programmi edilizi e un miglior sistema sanitario. «È una crisi molto pesante, ma non mette in pericolo il destino della nazione. I problemi sono gravi, ma non al di fuori della nostra portata. È il momento di ripartire, creare nuovi posti di lavoro, rilanciare il credito, investire in campi come le risorse energetiche, le cure mediche, l’agricoltura e le nostre industrie».
Il discorso non contiene molti nuovi particolari, anche perché risponde alla necessità di «navigare» fra la speranza e il realismo, fra una visione precisa e articolata e il desiderio di forgiare una collaborazione al di sopra dei partiti di cui finora non si hanno molti segni. Lo ha dimostrato una volta di più la risposta «ufficiale» del Partito repubblicano, affidata a colui che dovrebbe esserne l’astro nascente, il nuovo governatore della Louisiana Bobby Jindal, un «emergente» di origini indiane, ma saldamente collocato nell’ala più di destra dell’opposizione; al punto da aver annunciato che, in segno di protesta per lo stimolo troppo «spendaccione» approntato dai democratici, la Louisiana rifiuterà parte degli stanziamenti federali. Una presa di posizione dimostrativa ed estrema, destinata a suscitare critiche in Louisiana e comunque non condivisa dalla grande maggioranza degli altri governatori repubblicani, guidati dal più importante, bisognoso e «beneficato» di tutti, Arnold Schwarzenegger della California. Anzi nel Partito repubblicano si delinea una frattura, con i governatori degli Stati che appoggiano i piani di Obama e i membri del Congresso che vi sono compattamente e rigidamente ostili. Quasi fra le righe, stavolta, la politica estera.

L’annuncio più importante riguarda l’Irak: il ritiro delle truppe combattenti americane sarà completato l’anno prossimo, nell’arco di 19 invece che di 16 mesi. Resteranno forze non di combattimento, forse decine di migliaia.

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