Cultura e Spettacoli

Contaminazione la parola d’ordine del jazz

Se ancora l’élite della musica classica mondiale fatica ad accettare come forma espressiva di “serie A” il rock, il jazz invece è da anni entrato nei circoli culturali che contano e calca con frequenza i palcoscenici che un tempo erano strettamente riservati alle orchestre sinfoniche e ai cantanti lirici. Ormai non è più un evento raro l’incontro tra un esponente di punta della musica classica e un grande del jazz.
I primi grandi nomi che facilitarono l’abbattimento di barriere razziali e snobistiche furono forse George Gershwin e Leonard Bernstein, musicisti di formazione classica che non seppero però resistere al richiamo delle sincopazioni della musica nera e della loro libertà espressiva, due elementi quanto più distanti possibile dal rigore della tradizione classica.
Ma cos’è il jazz? Tanto per cominciare, da dove nasce la parola jazz, o meglio, jass? Secondo alcuni, sarebbe la americanizzazione di una espressione francese in voga a New Orleans a cavallo tra XIX e XX secolo: jaser, che significa grosso modo chiacchierare, fare rumore. Una musica che è in massima parte nera, perché è sulla poliritmia africana e sull’autonomia espressiva dei neri - vera e propria metafora di una vita in catene che spicca il volo nell’arte - che esso fonda la propria forza. Il fatto che i termine per designare questa musica sia stato coniato a New Orleans è significativo, visto che è proprio nella città della Louisiana, crogiolo di razze e di culture che il jazz ha fatto sentire i primi vagiti, nonostante oggi sia più o meno confermato il fatto che questa nuova espressione musicale si sarebbe fatta notare quasi contemporaneamente anche nelle città di Kansas City, St. Louis e Chicago, per poi propagarsi nel resto degli Usa. Elementi della tradizione tribale dell’Africa occidentale rielaborati dagli schiavi nel sud degli Usa che si combinano con tratti di musica popolare e classica europea, creando un mélange inedito e intrigante, inizialmente bandito dall’ufficialità bianca ma presto richiestissimo proprio dai bianchi.
È questo il jazz? No, questo è il tratto di partenza, ma il jazz è soprattutto una filosofia artistica che ricerca nella massima libertà espressiva la propria ragion d’essere. Un canovaccio su cui improvvisare, quasi che la musica fosse una nuova commedia dell’arte. Una melodia di fondo da cui, progressivamente, il musicista si distacca per creare, con ogni sua interpretazione, un universo armonico nuovo. Una vera rivoluzione. Ma ogni rivoluzione che si rispetti necessita di eroi e di catalizzatori. Il primo jazz di New Orleans si muove sulle note delle bande di ottoni un po’ stonati che suonano con la stessa disinvoltura a feste di piazza e funerali e sui ritmi sincopati dei pianisti che intrattengono i clienti nelle case da gioco. Personaggi come Jelly Roll Morton e Buddy Bolden sono ammantati di un’aura mitica. A Kansas City, invece, prevalgono le big bands, ovvero i gruppi molto numerosi che personaggi del calibro di Count Basie diressero e fecero grandi. Sono proprio le rivalità, spesso fittizie, tra le grandi orchestre di Count Basie e Duke Ellington, il Conte e il Duca, il sale della primavera del jazz. Ma soprattutto sono i loro arrangiamenti e le loro composizioni, di una complessità armonica tale da intrigare i primi musicisti classici.
Ma, nell’accezione moderna, il jazz è soprattutto improvvisazione e dunque bisogna aspettare soprattutto gli anni ’40 e ’50 perché i grandi eroi della libertà espressiva prendano il sopravvento, spazzando via ogni schema precostituito, ammesso che il jazz ne abbia mai avuti. Personaggi come Charlie “Bird” Parker, prima, e Miles Davis e John Coltrane, poi, sono solo la punta di un iceberg in costante espansione. Oggi il jazz è entrato nelle case di tutti e continua a evolvere, «contaminandosi» con la musica etnica di tutto il mondo.

Ancora una volta, il solco è segnato e ad aprire il sentiero è proprio il jazz.

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