Così gli animali ci aiutano a guarire

Se vi recate a un maneggio e chiedete di imparare a cavalcare, difficilmente vi metteranno subito in sella. Probabile che la prima lezione, e forse anche la seconda, la trascorriate vis à vis col cavallo e intorno a lui, pulendolo, strigliandolo, dandogli carezze, guardandolo negli occhi o parlandogli mentre lo sellate o gli pettinate la coda. Non si può cavalcare senza aver prima imparato l’«arte di avvicinarsi» a una delle intelligenze emotive più perfette esistenti in natura: se siete troppo violenti o troppo remissivi, troppo paurosi o troppo forti - o comunque «troppo» di qualcosa - nel migliore dei casi il cavallo vi prenderà in giro, nei peggiori vi disarcionerà. Lavorando sulle vostre emozioni, però, accadrà l’inatteso: scoprirete che non si ordina al cavallo di fare una tal cosa, né lo si supplica di eseguirla, ma la si fa «insieme a lui». «Insieme» è anche - e non a caso - l’avverbio cardine della pet therapy, cioè di una serie di attività e terapie assistite con animali: sono le «relazioni che curano» malattie come l’alzheimer, la depressione, numerose disabilità fisiche e alcuni problemi di postura. La pet therapy è oggi in costante crescita. Battezzata con questo nome nel 1953 grazie al neuropsichiatria infantile statunitense Boris Levinson - che aveva constatato gli effetti benefici del suo cocker sui bambini di cui si occupava - la pet therapy è stata riconosciuta ufficialmente anche in Italia nel 2003, con il decreto Sirchia, e oggi è sostenuta con grande passione anche dal sottosegretario alla Salute Francesca Martini, che ha fatto costruire un centro di referenza nazionale a Montecchio Precalcino, a Vicenza. Questo centro è la punta dell'iceberg. Cani, cavalli, asini, delfini, ma anche altri piccoli animali di fattoria vengono ogni giorno impiegati per curare bambini e anziani (negli Stati Uniti la troviamo anche nei manicomi criminali). «È impreciso chiamarla pet therapy - spiega Lorenzo Pergolini della Cooperativa Pet Village di Sinigallia, autore con Rino Reginella dell’appena uscito Educazione e riabilitazione con la pet therapy (Centro Studi Erickson) - perché se usate questa espressione all’estero potrebbero credere che facciate il fisioterapista degli animali. Ogni quattro anni l’associazione internazionale degli operatori si riunisce - nel 2010 sarà a Stoccolma - per concordare delle linee guida che poi ogni stato accoglie a modo suo. Noi, per esempio, tre o quattro volte la settimana portiamo i nostri cani all’ospedale pediatrico di Ancona e, con gli psicologi del reparto, constatiamo ogni volta quanto il contatto con i cani faccia fare enormi passi avanti nella cura dei bambini ricoverati. Soprattutto in caso di danni all’apparato motorio e sensoriale». «Da noi - racconta Mauro Coppa, direttore del centro della Lega del Filo d'oro di Osimo, nelle Marche - arrivano bambini sordociechi e con gravi problemi cerebrali: quando entrano in relazione con i cani una delle loro prime reazioni è il sorriso. È incredibile vedere come bambini così isolati interagiscano col mondo grazie a una relazione emotiva con un animale. Al Filo d'oro facciamo anche una raccolta scientifica di dati, attraverso videotape e statistiche. Contiamo di fare altrettanto in futuro nelle sedi distaccate di Lesmo, di Molfetta e quella di prossima apertura a Termini Imerese». Non solo cani, però. Per problemi di postura e disabilità fisiche l'ippoterapia è forse meglio della pet therapy: con supporti il disabile viene messo a cavallo e da lì inizia per lui, ovviamente sotto la supervisione medica, il lungo lavoro di percezione di sé e del proprio corpo. Alcuni disabili finiscono persino col diventare atleti. Caso molto particolare di pet therapy è quella con i delfini: per due anni il delfinario di Rimini l'ha portata avanti con successo, ma poi una legge ha bloccato questa forma di terapia in acqua insieme ai pesci.

E con essa il progetto simile, in stand by dal 2004, che aveva il Parco delle Cinque Terre tra Riomaggiore e Monterosso. Eppure mai come oggi la relazione con gli animali ci restituisce una dimensione dimenticata della cura medica: quella dell'empatia.

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