Cultura e Spettacoli

Così la Grande Guerra fece (davvero) l'Italia e anticipò tutto il '900

Il passaggio dal patriottismo al nazionalismo, la voglia di rivincita tedesca, la fine dello zarismo

Il XX secolo ha avuto il suo vero e significativo inizio con la Grande Guerra. Fu questa a conferire al Novecento quel carattere duro e tragico che segnerà gli avvenimenti successivi al 1918, a distruggere l'immagine ordinata del mondo smentendo la convinzione di un pacifico progresso per l'intera società e di un rinnovamento altrettanto pacifico dell'ordine internazionale, generando la credenza che a decidere siano solo i rapporti di forza. Emerge la logica secondo cui non sarà il diritto a decidere sul fatto, ma il fatto sul diritto. Vi è un nesso immediato che corre tra la catastrofe della civiltà liberale europea e la nascita di visioni del mondo a essa radicalmente contrapposte, le quali trovano il loro momento cruciale con la nascita dei totalitarismi.

La Grande Guerra trasformò le ideologie in realtà con la mobilitazione e la politicizzazione dei cittadini: l' union sacrée non vi fu solo in Francia, ma in ogni nazione in lotta. Di qui una generale massificazione che investì sia le classi dirigenti, sia quelle subalterne. Comunismo, fascismo e nazismo trassero dal conflitto gli insegnamenti decisivi sull'uso della violenza per travolgere tutte le faticose conquiste dell'individualismo liberale del secolo precedente. L'evento bellico provocò una generale statalizzazione della vita economica per tutte le nazioni belligeranti. L'unione fra industrialismo e coscrizione obbligatoria, fra capitalismo e Stato nazionale, pervase tutti i Paesi europei. Le industrie interessate alle forniture belliche si svilupparono al di fuori di ogni normale regola di mercato; si affermò quindi l'idea di una pianificazione economica, tanto che molti parlarono di un «socialismo di guerra», rendendo determinante il decisionismo politico e il suo dominio. Ne conseguì il tracollo del parlamentarismo, esautorato dalle sue prerogative fondamentali.

A decidere le sorti delle operazioni belliche fu soprattutto la potenza industriale. Si manifestò la natura ambivalente della macchina (simbolo della modernità), la cui potenza poteva essere asservita a qualunque progetto. Di qui l'idea di un progresso inteso come potenza e lo stretto legame tra l'avvento spersonalizzante della modernità e la guerra stessa, che per cinque anni dispiegò nei campi di battaglia un'apocalisse, seminando orrori come mai l'umanità aveva conosciuto (dal 1914 al 1918 «l'inutile strage» - così la definì papa Benedetto XV - registrò ogni giorno la morte, in media, di circa 1300 soldati, senza contare i civili).

Tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro, convinti che sarebbe durato pochi mesi («tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi» disse, nell'agosto del 1914, Guglielmo II ai soldati in partenza per il fronte). Non furono tenute in alcun conto le nuove armi - artiglierie pesanti, fucili a ripetizione e mitragliatrici automatiche - che rendevano pressoché equivalenti le forze in campo. I mezzi tecnici dimostrarono per molti versi la marginalità dell'azione umana: dieci mitragliatrici austriache inchiodavano i soldati italiani, come dieci mitragliatrici italiane inchiodavano i soldati austriaci (soltanto l'entrata in guerra degli Stati Uniti, nell'aprile del 1917, ribaltò questa situazione di stallo). Alla guerra di movimento si sostituì quella di trincea, dando avvio a un estenuante logoramento psicologico, per i combattenti e per la popolazione. Decisivo pertanto divenne il «fronte interno», mobilitato fino all'estremo.

Se in Russia la guerra fu determinante per l'avvento del comunismo (Lenin non avrebbe mai preso il potere senza l'implosione dello zarismo, causata dall'impossibilità materiale di sostenere a lungo l'impegno bellico), in Italia e in Germania essa favorì il nazionalismo. Per quanto riguarda il nostro Paese il passaggio dal sentimento patriottico del Risorgimento al sentimento nazionalistico del fascismo avvenne proprio nelle trincee, che davanti alla morte unirono tragicamente calabresi e piemontesi, veneti e sardi, toscani e lombardi. La vittoria italiana fu «scippata» dal fascismo allo Stato liberale perché la sua classe dirigente era in gran parte estranea al nuovo ethos violentista.

La guerra termina con un fallimento generale, visto che i trattati di Versailles non producono una pace vera e duratura. Mentre nella coscienza europea tramonta la legittimità autosufficiente del principio monarchico, con la fine dei tre assolutismi - il russo, l'austro-ungarico e il tedesco - non si impone di converso un autentico sentimento democratico. I vincitori, in particolare Inghilterra e Francia, non sembrano mossi da saggezza e moderazione. Soprattutto le misure punitive imposte dalla Francia alla Germania saranno foriere del malanimo di rivincita dei tedeschi, decisivo, per molti versi, per la nascita e l'ascesa del nazismo. Per di più il nuovo principio di nazionalità, che doveva essere fondato sull'autodeterminazione dei popoli (come voleva Woodrow Wilson), è pervaso da una logica astratta incapace di considerare l'effettiva situazione delle popolazioni. Così l'aspirazione indipendentista delle «nazionalità oppresse», specialmente quelle dell'impero austro-ungarico, non avrà la giusta risposta. In conclusione l'Europa, e con essa l'intero Occidente, non riusciranno a evitare un ulteriore conflitto, come puntualmente avverrà vent'anni dopo.

Il Novecento, inaugurato dalla Grande Guerra, si dissolverà definitivamente solo negli ultimi trent'anni con l'avvento della globalizzazione.

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