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«Così ho battuto il virus dell’influenza A»

Monza«Ora dovremo intubarti. Poi ti addormenteremo perché i tuoi polmoni non riescono a funzionare come dovrebbero». Era lucido, cosciente e queste sono state le ultime parole che ha sentito. Pronunciate con fiducia e calma da chi è abituato ad affrontare le situazioni peggiori. E la sua, quella di F. F., il 24enne di Parma ricoverato all’ospedale San Gerardo di Monza a causa dell’influenza da virus H1N1, era questo: un caso gravissimo. Il primo in Italia di attacco virulento da parte del morbo. Quel sonno dura da due settimane. Lui nulla sa e neppure immagina di essere diventato un caso nazionale. Semplicemente lotta per la vita. Sabato sono arrivati i risultati dei test inviati all’Istituto virologico di Milano. Un primo esame aveva dato esito negativo. Niente più virus. Gli ultimi hanno rilevato ancora delle tracce minime. Ma potrebbe non trattarsi di un ritorno. Su questa possibilità conta Giuseppe Foti, responsabile dell’unità operativa del reparto di Terapia intensiva del San Gerardo. Lui è uno dei medici che lo hanno assistito fin dai primi istanti.
Dottor Foti, qual è la situazione a oggi?
«Il secondo test ha dato un risultato che non va però considerato sicuro al 100%. In questo campione è stata rinvenuta una quantità bassissima che fa pensare si possa trattare del “cadavere” del virus stesso. La sensazione clinica ci fa pensare a quest’ipotesi anche se la certezza l'avremo la prossima settimana. Comunque quello che stiamo vedendo non è più il risultato dell'infezione virale».
Significa che l'influenza è stata debellata o almeno quasi debellata?
«La battaglia non è più contro l’H1N1 e di questo sono abbastanza convinto. Sono le condizioni cliniche del paziente, l’insufficienza renale, parzialmente risolta, e quella polmonare che è ancora forte. Fa quasi ridere dirlo, ma l’influenza l’abbiamo combattuta con il Tamiflu che ha dimostrato di funzionare benissimo».
Con quello che sta succedendo sembra paradossale…
«Non lo è. Noi riconosciamo un’infezione e la curiamo con un antimicrobico o un antivirale. Ma se questa è una condizione necessaria, non è però sufficiente. Spesso dobbiamo ricorrere a tecniche aggressive. In questo caso siamo stati molto aggressivi. Abbiamo utilizzato tutte le nostre armi. E il gioco, se così si può dire, è proprio questo. L’organismo viene liberato dal virus, ma ha bisogno di recuperare dai danni generati da cure molto invasive. La terapia antibiotica sembra stia funzionando».
Qual è l’aspetto più preoccupante?
«Le montagne russe. I pazienti di questo tipo migliorano e peggiorano, ma è normale. Nei cittadini, invece, queste notizie possono creare confusione e paure ingiustificate. Bisogna pensare a una partita di calcio: si attacca, si pareggia, magari si incassa un gol, ma alla fine si vince la partita».
Una partita che avete temuto di perdere?
«Ricordo quando siamo stati chiamati dai colleghi di Parma. Avevano fatto tutto il possibile, avevano lavorato in modo eccellente e aggiungo che non meritavano di essere messi sotto pressione come è accaduto in questi giorni. La situazione era gravissima. Ci hanno contattato perché sanno che utilizziamo la tecnica dell’extracorporea e dal 2004 riusciamo anche a trasportarla in altri ospedali. Quando siamo arrivati abbiamo tentato prima con l'ossido nitrico, ma non ha funzionato. A quel punto abbiamo attivato la circolazione artificiale».
Parliamo di Ecmo giusto?
«Senza questa tecnica il ragazzo sarebbe morto di lì a poco, probabilmente entro le 24 ore. I polmoni erano fermi, un rene non funzionava, la pressione era bassissima. Si stava sfasciando, in gergo medico un'insufficienza multiorgano. Non appena abbiamo attivato il macchinario, la situazione è migliorata. In questo caso non bastavano le tecniche convenzionali».
Una macchina salvavita…
«Una tecnica innovativa e importante. Come medico sono cresciuto a pane ed Ecmo anche se in realtà non è ancora diffusa per una questione di know how. È una modalità di intervento delicata che prevede il prelievo di sangue attraverso una vena dell’inguine, la sua ossigenazione e poi il ritorno nell’organismo del paziente».
Quando avete capito che si trattava di H1N1?
«Due giorni dopo. A Parma avevano fatto esami a tappeto, alcuni erano ancora in corso. Dopo averlo stabilizzato, abbiamo consultato lo pneumologo e a quel punto tra le ipotesi è emersa anche quella dell'influenza suina. Confermata poi dai test».
Qual è stato il momento peggiore?
«L’intubamento, a Parma.

Avevamo solo la tranquillità di stare facendo tutto il possibile».

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