Quando si ha a che fare con la povertà delle famiglie si deve avere il massimo rispetto della dignità con cui i nostri vicini affrontano i morsi dell’indigenza. Occorre non sottovalutare, ma cercare di capire bene. La nostra non è ancora una società «strappata», scossa dalle tensioni sociali: il sistema di relazioni familiari, una socialità arrangiata e un relativamente alto tasso di proprietà immobiliare evitano la deflagrazione del fenomeno. Ma i numeri continuano a dire, in modo inequivocabile, anche se, evidentemente, imperfetto, che ci troviamo su un piano scivoloso. È del tutto fuori luogo pensare che l’impoverimento della nostra collettività sia figlio della recente crisi. Purtroppo esso è partito molto prima. È figlio di quel processo di blocco della nostra competitività che è partito almeno dieci anni fa. E le cui basi, anche normative, risalgono, ad anni ancora più lontani. E l’attuale crisi mostrerà, ahinoi, i suoi morsi, solo nelle statistiche che leggeremo tra un paio di anni.
Guardando soltanto dal buco della serratura teniamo bene a mente tre anni. Nel 2005 l’Italia è cresciuta dello 0,6 per cento: contro una media dell’area euro più che doppia e pari all’1,6 per cento. Nel 2006 il balzo della nostra ricchezza è stato dell’1,8 per cento, contro il 2,8 europeo. E non meglio è andata nel 2007, quando siamo cresciuti di un punto percentuale meno della media europea che è stata del 2,6 per cento.
Chi legge oggi i dati del rallentamento economico, della povertà, si deve innanzitutto togliere il binocolo. Essa non è figlia dell’attuale crisi economica, è l’eredità di tre anni in cui l’Europa è cresciuta egregiamente. L’anno scorso l’area euro ha fatto meglio persino degli Stati Uniti. Quasi tutti hanno corso e messo un po’ di fieno in cascina: tranne l’Italia appunto.
La soluzione del problema non è dunque da ricercarsi nella soluzione dell’attuale problema, ma in quella della nostra struttura produttiva e politico-istituzionale. L’Italia è un gigante (perché tali ancora siamo) che si muove per inerzia, lentamente, con un corpaccione sano, ma pieno di lacci. Il passo lento fa sì che i vicini provino a superarci, ci inseguano con speranza, ci rosicchino posizioni.
L’Italia corre infatti con un braccio legato, anzi sarebbe meglio dire con una gamba azzoppata. Posta a 1500 miliardi la ricchezza prodotta in un anno dal nostro Paese, la metà esatta viene, in qualche modo, gestita dalla politica, dai governi, dalle istituzioni non di mercato. 750 sono i miliardi di spesa pubblica che ogni anno si permette il nostro Stato. Sono quattrini recuperati dalle tasche degli italiani, che evidentemente lavorano per produrli. E che sono elargiti attraverso canali di opacità ed inefficienza tipici del pubblico. L’Italia è così divisa in due come una mela. Una parte corre, o meglio cerca di farlo, viene tartassata dal fisco e rallentata dalla burocrazia. E l’altra metà è là ferma: non è sottoposta alla concorrenza, negli ultimi cinque anni si è vista riconoscere da governi di destra e sinistra incrementi retributivi superiori al privato e fornisce servizi non paragonabili alla media europea.
Ecco perché progressivamente entrerà sempre più in gioco anche un tema di diseguaglianza.
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