La legge di Bilancio pare abbia del tutto ignorato le esigenze delle scuole dell'infanzia paritarie, che in realtà sono le esigenze di centinaia di migliaia di famiglie di 582mila bambini dai tre ai sei anni. Certamente, una riduzione di fondi pari a 50 milioni di euro appare “schizofrenica”, rispetto al decreto legislativo 65/17, fresco di aprile, che istituisce il “sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni”, a norma dell'articolo 1, commi 180 e 181, lettera e), della legge sulla Buona Scuola. La finalità dell'ampliamento dell’offerta formativa nel segmento 0-6 anni, per incrementare i servizi alle famiglie o ridurne il costo a loro carico, è già morta. Abortita. Evidentemente occorre prendere coscienza del fatto che, con le limitate risorse pubbliche disponibili, lo Stato – pur vedendone la necessità de facto e de iure - non ce la farà mai ad ampliare l'offerta formativa 0-6 e oltre, lungo tutto lo Stivale. Neppure il tempo di campagna elettorale gli sarà propizio. Il problema è a monte e, solo per affrontarlo – non si dice risolverlo magicamente -, occorre avere le idee chiare e distinte. O rassegnarsi alle quattro zampe. L’obiettivo è semplicemente garantire il diritto a) dello studente di apprendere senza alcuna discriminazione economica; b) dei genitori di esercitare la propria responsabilità educativa in una piena libertà di scelta che domanda necessariamente un pluralismo formativo, fatto di buone scuole pubbliche, paritarie e statali; c) degli insegnanti di scegliere, a parità di titolo, se insegnare in una buona scuola pubblica statale o pubblica paritaria con il medesimo stipendio. Stupisce come i sindacati, da sempre avvezzi a difendere il diritto dei lavoratori ad essere retribuiti in modo equo, non siano mai scesi in piazza per garantire ai docenti della scuola pubblica paritaria una retribuzione uguale a quelli della scuola pubblica statale.
Stupisce che non si siano mai posti la domanda: “Ma le scuole paritarie perché non pagano i docenti come verrebbero pagati nella scuola statale?”, come pure lascia sorpresi che non abbiano dato manforte agli sparuti ispettori ministeriali per radere al suolo poche ma fastidiose “scuole” di stampo mafioso che non pagano affatto i docenti o peggio si fanno restituire in contanti lo stipendio. La risposta potrebbero darla dei quattordicenni ben acculturati: le buone scuole pubbliche paritarie, anche piccole ma “doc” quanto all’eccellenza della formazione (quelle che migliaia di intelligenti portinai shrilankesi e colf filippine – tutti regolari contribuenti - vorrebbero scegliere per i loro figli) non potrebbero mai applicare ai loro ottimi docenti il ccnl della scuola statale, senza richiedere rette che tagliano in due la società. Chi iscrive i figli alle pubbliche paritarie ha già pagato le tasse ad uno Stato che all’Art. 3 della Costituzione Italiana (oggi 70 anni) recita: “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.” Sono genitori che prendono sul serio lo Stato Italiano quale Stato di diritto nella misura in cui garantisce i diritti che riconosce (altrimenti non avrebbe senso riconoscerli) e all’ art 33 leggono chiaro il pluralismo educativo: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.” E che lo Stato di diritto abbia il dovere di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” è ugualmente chiaro all’art. 3 della Costituzione. La legge 62/2000, di cui è sviluppo la L. 107/15 della “Buona Scuola”, ha esplicitato in modo chiaro e distinto che il Sistema Nazionale di Istruzione è composto da scuole pubbliche statali e scuole pubbliche paritarie, le “due gambe”, per dirla col ministro Giannini, della Scuola Italiana. Dunque il genitore contribuente ritiene che può decidere dove iscrivere il figlio…visto che ha già esperienza del Sistema Sanitario Nazionale, formato da Policlinici statali e da strutture non statali, convenzionate, tra cui ha scelto dove operarsi di calcoli alla cistifellea, pagando un semplice ticket. Invece no, non può scegliere dove educare – nel sistema pubblico di istruzione – il proprio figlio. Se non ha i soldi della retta (comunque di gran lunga più economica di quanto costi uno studente allo Stato, cioè a lui contribuente che paga le tasse…ma questo il genitore spesso no lo sa, ed è meglio, così evita un attacco di fegato) non può scegliere la buona scuola pubblica paritaria che desidera. Chiuso il discorso. Il povero non sceglie. Dato che non esiste il “sindacato dei genitori contribuenti poveri”, questa evenienza non interessa alle OOSS. Fin qui, al mese di ottobre 2017, quando, a seguito dell’azione culturale pregressa dei ministri Giannini e Fedeli, ampiamente sostenute in questa linea dall’Onorevole Gelmini e dall’assessore Aprea, l’attuale ministro ha dichiarato: “Credo sia giunto il momento dopo 17 anni di cominciare a fare sul serio sul pluralismo educativo e sull’offerta formativa per il diritto allo studio, anche per le scuole paritarie. Ci tengo ad annunciare di aver firmato la costituzione del Gruppo di lavoro per la definizione del costo standard di sostenibilità per gli studenti, uno dei punti che io ritengo fondamentali per iniziare a far un percorso insieme”.
Passaggio storico, sostenuto da aree politiche opposte, con il buon senso di chi sa che lo Stato Italiano, indebitato gravemente, non può mettere danari a pioggia nella scuola, ma che occorre rivedere l’intero sistema di finanziamento del sistema scolastico a completamento della legge 62/2000. E’evidente che nessun candidato politico per le prossime elezioni potrà dire e fare di meno dal momento che sguardi consapevoli e intelligenti vigileranno e leggeranno i programmi in ordine al diritto di apprendere nella scuola pubblica italiana, statale e paritaria, tenendo presenti alcune cifre-chiave. Le scuole italiane, dall’Infanzia alle Secondarie di secondo grado, sono frequentate da 8.826.893 studenti, 1.109.585 dei quali sono alunni di scuole pubbliche paritarie. Per garantire l'istruzione a tutti, lo Stato ha stanziato, nell'anno scolastico 2015/2016, 49 miliardi e 418 milioni di euro per la scuola pubblica statale, e 499 milioni di euro (diminuiti di 30 milioni rispetto al 2006/2007) per la pubblica paritaria. Ciò significa che ogni studente delle scuole pubbliche statali costa allo Stato centrale 6403,52 euro solo di spese correnti (la cifra aumenta di molto se si considerano i finanziamenti degli enti locali). Come si può immaginare, la spesa per la retta ha provocato, nel corso degli anni, un calo delle iscrizioni alle scuole paritarie, che sono passate dall’11,85% dell'anno scolastico 2010/2011 al 10,64% del 2015/2016. C'è un dato, però, che testimonia la fiducia riposta da molte famiglie nelle buone scuole pubbliche paritarie: la crescita del numero di iscritti con bisogni particolari, come stranieri e disabili. Questi ultimi sono passati, infatti, dagli 11.547 dell'anno scolastico 2010/2011 ai 12.211 del 2014/2015, mentre gli stranieri sono saliti da 45.069 a 60.017. Come abbiamo visto il 93,8% degli alunni frequentano scuole statali. Ma queste garantiscono qualità? Secondo i punteggi dell’OCSE no, dal momento che l’Italia si colloca agli ultimi posti sulle competenze degli studenti: siamo quartultimi nella capacità di lettura, quintultimi in matematica; tra i grandi Paesi europei, la laicissima Francia – dove il 32% degli studenti frequenta le scuole paritarie, i cui insegnanti sono pagati dallo Stato e le cui rette sono bassissime – ci batte abbondantemente. La soluzione sta nel calcolo del costo standard di sostenibilità per allievo, costo da applicarsi ugualmente a tutte le scuole pubbliche, paritarie e statali: un modo efficace per sostenere economicamente l'educazione di tutti i ragazzi, facendo nel contempo risparmiare risorse allo Stato. In generale, applicando questi costi standard, e considerando tutti gli alunni diversamente abili, ogni studente italiano costerebbe allo Stato 5.441 euro, per un totale di 47,1 miliardi, cioè ben 2,8 miliardi in meno di oggi e con la garanzia della libertà di scelta educativa dei genitori. Garantire il diritto fondamentale all'istruzione senza discriminazioni economiche, restituendo alla famiglia la sua responsabilità educativa in una piena libertà di scelta, è, dunque, possibile. Ciò deve avvenire nell’ambito di un pluralismo educativo in cui lo Stato garantisca pari risorse a tutte le scuole dello Stivale, con l'obiettivo di innalzare la qualità dell'istruzione italiana, portandola allo stesso livello degli altri Paesi europei. Una strada possibile viene dalla ridiscussione del rapporto fra Stato ed Enti locali avviato dai due referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto. Ora che si è aperto il capitolo della trattativa col Governo in merito ad una maggiore autonomia amministrativa e finanziaria, in Lombardia uno dei temi in questione è proprio l’introduzione del criterio del costo standard nel sistema scolastico.
Il 23 gennaio 2018 è già in calendario l’incontro di 12 Associazioni che rappresentano le Scuole pubbliche paritarie lombarde con l’assessore Aprea e i funzionari di RL per procedere allo studio. La politica intelligente non potrà far finta di niente. Quella poco seria se la vedrà con i cittadini consapevoli. La Lombardia può essere considerata capofila fra le Regioni nell’ambito della libertà di scelta educativa: il suo principale obiettivo si traduce ora in una maggior sussidiarietà, per consentire una ulteriore personalizzazione dei percorsi e una più piena libertà di scelta delle famiglie, attraverso l’adozione di costi standard. Come illustrato dall’Assessore regionale Valentina Aprea a Tuttoscuola, «Regione Lombardia intende richiedere trasferimenti di funzioni e di risorse in materia di istruzione e formazione professionale per estendere il modello lombardo del sistema dotale (Buono Scuola, Dote Scuola, Dote Merito, Dote Formazione, Dote Disabili e Dote Apprendistato) a tutta l’istruzione statale e paritaria, introducendo il principio dei “costi standard di sostenibilità” come parametro per il finanziamento. Non si tratta di inventare nulla, ma di guardare alle buone esperienze italiane e internazionali come, ad esempio, a quella del settore sanitario dove, da anni, le strutture sanitarie pubbliche e private (sia profit che non profit) competono tra loro “ad armi pari”, ricevendo i finanziamenti pubblici sotto forma di un rimborso uguale per tutti sulla base della singola prestazione erogata». La novità è che l’autonomia toccherebbe anche la materia del reclutamento del personale, poiché - ferma restando l’abilitazione nazionale - potrebbe essere costituito un Albo Regionale dei docenti, per sostenerne lo sviluppo professionale e realizzare la reale autonomia scolastica, così come già avviene, ad esempio, nella Provincia Autonoma di Trento.
In sintesi, un criterio di razionalizzazione, che tenga conto delle esigenze di ciascun istituto in rapporto alle persone e al territorio, è l’unica strada per una riforma del sistema scolastico compiuta e di successo, a vantaggio in primis di bambini e studenti, ma anche degli insegnanti. Lombardia docet. Ma non deve restare sola. La parola alla politica, quella vera.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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