La medaglia al partigiano stragista umilia il Paese

M ussolini era stato «giustiziato» due mesi prima, Hitler si era ucciso subito dopo, la Seconda guerra mondiale era già finita, ma a Schio, nel luglio del 1945, un ventenne coglione, absit iniuria verbis, dell'epoca decise che di sangue non ne era scorso abbastanza o che comunque il sangue dei vinti non pareggiasse quello versato dai nuovi vincitori: entrò nel carcere (...)

(...) cittadino e fece fuori 54 detenuti, fritto misto di vinti e vincitori, ferendone altri venti. Condannato a morte dai tribunali alleati dell'epoca, fuggito all'estero e amnistiato dieci anni dopo, oggi si vede riconoscere la medaglia della Resistenza per ordine prefettizio e per volontà del ministero della Difesa. Ha contribuito, sembra di capire, alla liberazione dell'Italia.

Nella monumentale Una guerra civile, di Claudio Pavone, che all'inizio degli anni '90 del secolo scorso rilanciò il dibattito sulla Resistenza come memoria non oleografica, dell'eccidio di Schio non v'è traccia. Il sottotitolo del saggio, più di ottocento pagine fra testo e note, rimanda alla «moralità nella Resistenza». Moralità può essere anche un termine ambiguo, ma farci entrare, settant'anni dopo, la hibrys della vittoria, per dirla in termini eleganti, la volgarità assassina del vincitore, per dirla semplicemente, fa riflettere.

Qualche tempo fa mi ha colpito in televisione un particolare. Un deputato, credo, del Pd, Andrea Romano, che è uno storico interessante, un ex o post comunista-montiano, o comunque lo si voglia chiamare, faceva sapere di essersi appena iscritto all'Anpi, l'Associazione partigiani d'Italia. Era allora in corso il dibattito, più o meno sterile, scaturito da una dichiarazione della «fatina del governo», al secolo il ministro Boschi, sui partigiani buoni e cattivi in vista del futuro referendum costituzionale. Romano, che è nato vent'anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sventolava orgoglioso l'iscrizione, ma a me venivano in mente le legioni di «garibaldini», di «ragazzi del '99» e di «avanguardisti» del fascismo che senza essere stati tali l'avevano preceduta nel tempo e mi veniva spontanea la domanda: certo, ci sarà pure una filiazione ideale, ma proprio perché è ideale, non sarebbe il caso di assumere, come dire, visto che l'inglese è la linea linguistica adottata dal nostro presidente del Consiglio, un low profile? Camminare sulle scarpe dei morti è un esercizio di equilibrismo, e tanto più lo è se, di là dalla oleografia da cui Pavone cercava di tenersi distante, questi morti rappresentano una certa idea dell'Italia, oleograficamente, appunto, vincente, ma storicamente, realmente? Ora, prima che il solito retore di turno si alzi per gridare al vilipendio della Resistenza, sarà meglio mettere le mani avanti e dire che sì, naturalmente, l'Italia che abbiamo ricevuto in eredità è quella lì, l'assumiamo in toto, diamo anche per scontato che abbia liberato l'Italia senza gli «alleati» e senza che il fascismo cadesse motu proprio, errori e orrori compresi. Detto ciò, a maggior ragione si chiede una capacità, settant'anni dopo, tre generazioni, è il caso di dire, di saper valutare ciò che settant'anni prima accadde, errori e orrori anche qui, senza fare sconti e senza appunto, marciare sulle scarpe e/o gli scarponi altrui. Tanto più se sporchi di sangue. Innocente, va da sé, a meno che un tribunale non avesse deciso altrimenti. Non c'è bisogno di aver letto Giampaolo Pansa e, prima di lui, Giorgio Pisanò, per sapere che la «guerra civile» fu in Italia una mattanza. C'è da stupirsi semmai perché Pisanò non sia stato mai preso in considerazione, in quanto fascista, e Pansa additato al pubblico ludibrio in quanto traditore dell'antifascismo. È un atteggiamento che la dice lunga sulla vulgata di una storia resistenziale che non ha niente a che vedere con la storia reale, ma che incide nella nostra memoria storica più di una guerra perduta.

Dare oggi una medaglia a chi settant'anni fa fece di tutto, tranne che un'azione eroica, liberatoria, patriottica, eccetera, usate pure gli aggettivi che volete, alimenta l'idea di una nazione che fatica a riconoscersi come tale, l'eterna nazione dove conta sempre se, quando suona la campana, stai dalla parte giusta. Solo che la campana, prima o poi, suona per tutti.

Stenio Solinas

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