Nella babele Inter(nazionale) tutti parlano una lingua diversa

Patron cinese, presidente indonesiano, tecnico olandese e giocatori di 12 nazionalità. Come ci si capisce nell'Inter?

Nella babele Inter(nazionale) tutti parlano una lingua diversa

Peppin Meazza avrebbe compiuto ieri centosei anni. Ai tempi suoi, prima della seconda guerra, l'Inter aveva già i capricci per gli stranieri. Nella stagione '34-35 Meazza si ritrovò nello spogliatoio sette sudamericani, quattro uruguagi Francesco Frione II, Roberto Porta, Ernesto, Mascheroni, Ricardo Faccio e tre argentini, Alfredo De Vincenzi e i due fratelli Demaria, Felix e Attilio; ovviamente tutti naturalizzati italiani, anche nei nomi, in onore del regime. Il clan era completato da un allenatore ungherese, Gyula Feldmann.

Centosei anni dopo, l'Internazionale football club conferma la tradizione e l'insegna di fabbrica ma, credo, stia esagerando: i cognomi non sono stati adattati o modificati alla lingua nostra e su 28 calciatori in rosa sono soltanto 6 gli italiani, il resto è tutta roba che proviene da ogni dove del mondo. È cambiata la proprietà, la storia grandiosa dei Moratti resiste con la presenza di Milly, moglie di Massimo, come advisory board, il resto è un ricordo. Dal presidente ai membri del consiglio di amministrazione, dagli azionisti di riferimento ai consulenti, il management insomma segnala cinesi, indonesiani, americani, inglesi.

Per evitare equivoci anche l'allenatore italiano è stato allontanato per assumere un olandese e Frank De Boer si è portato appresso collaboratori non italiani. De Boer parla inglese, tedesco e spagnolo non sarà difficile per lui apprendere l'italiano ma gli servirà poco, considerata l'origine anagrafica degli astanti e uditori.

La babele, per il momento, non ha prodotto risultati confortanti e indicazioni promettenti. Forse potrebbe trattarsi di un problema di comunicazione, oltre che di comunicabilità, lingue diverse, culture e usanze religiose opposte, abitudini differenti anche se il calcio ha una sua koiné che riesce a superare qualunque incomprensione. Ma il tifoso nerazzurro, non soltanto quello, si domanda perché mai sia necessario ingaggiare un numero così alto di tesserati stranieri. Gli investitori non si curano della nazionalità, non soltanto a Milano. Così l'Udinese di Pozzo, 5 italiani su 30, così la Fiorentina del made in Italy Della Valle, 5 su 32. Un'intossicazione che non porta benefici alla nazionale e nemmeno alla qualità del nostro calcio, semmai ha gonfiato le borse di procuratori e dirigenti.

Il caso Inter non deve stupire più di tanto. Stupisce lo stupore, perché dal Duemiladieci, anno mirabilis del triplete, l'Inter è entrata in involuzione, smarrendosi nella nostalgia, comprensibile, di quella stagione irripetibile e concludendo il proprio tramonto con la cessione del pacchetto di proprietà della famiglia Moratti.

I cinesi hanno piazzato i loro funzionari, internazionalizzando non il marchio, che già era tale prima del loro avvento, ma inserendo nei posti chiave uomini di esperienza imprenditoriale ma senza alcuna passione autentica per il calcio e per la squadra nerazzurra che fu del più grande di tutti, stranieri e italiani interisti: "Peppin Meazza era el folber" (così scrisse e titolò, due giorni dopo la sua scomparsa, Gianni Brera, trentasette anni fa oggi, il 24 agosto del 1979, su Il Giornale).

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