Le proteste e l'imbarazzo negli occhi dei poliziotti

È toccato a loro metterci la faccia, sotto la mascherina, che copre il naso e la bocca, ma lascia scoperti gli occhi. Stanno lì, imprecando sotto voce, contro chi si inventa le regole e poi se ne lava le mani. Troppo zelo. No, per niente.

Le proteste e l'imbarazzo negli occhi dei poliziotti

È toccato a loro metterci la faccia, sotto la mascherina, che copre il naso e la bocca, ma lascia scoperti gli occhi. Stanno lì, imprecando sotto voce, contro chi si inventa le regole e poi se ne lava le mani. Troppo zelo. No, per niente. Lì, sotto l'arco della pace, ce li hanno mandati, dopo ore e ore, quando ormai ogni cosa era quasi finita. Hanno trovato sedie, a un metro di distanza una dall'altra, con una manciata di persone che stava lì solo perché non sa più a che santo votarsi. Quindici, come a un funerale. A morire sono i ristoranti, i bar, i pub. L'ordine è farli morire in silenzio, zitti e a capo chino.

Gli occhi dicono tutto. L'imbarazzo si vede e colora di viola la divisa della Digos. Non si sa neppure bene cosa bisogna fare. Andate e disperdeteli. Ma sono già distanti e persi? Prendete nomi e cognomi, chiedete i documenti, fate qualcosa. Si fa, rassicurandoli. È solo una formalità. Solo che poi dall'alto arriva ancora un ordine: multateli. Quattrocento euro a testa. Multateli e che gli serva da lezione. Per cosa? Assembramento. La parola che punisce tutto. Il nuovo peccato mortale. Chi si assembra è perduto.

Lo chiamano assembramento ma dietro c'è un deserto. Ci sono porte chiuse e insegne spente. C'è gente a casa e senza più un lavoro. C'è un'estate senza luce e l'inverno del nostro scontento. Solo che tocca a loro, gli uomini in divisa, scrivere uno a uno il verbale. Non trovano le parole per spiegarne il senso. Allargano le braccia e si lasciano scappare un sospiro.

Allora tornano ancora una volta le parole di Pasolini, quelle del marzo '68. Non te la puoi prendere con chi veste la divisa. Non è sua la firma di uno Stato dove il buon senso si è perso nel labirinto delle ordinanze. «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano». Solo che questa volta la piazza è vuota e non ci sono state botte. Non ci sono gli studenti «figli di papà», i padri di chi magari oggi fa il sofista in qualche task force. Non c'è neppure una lotta di classe rovesciata. C'è solo gente che da sempre gode cattiva stampa. Cosa vogliono i bottegai? Di che si lamenta l'oste? Multarli è solo un atto di giustizia sociale. E giù tutto il rosario di pregiudizi: evasori, individualisti, borghesi. I cattivi in fondo sono sempre gli stessi. Come allora.

Lo sanno bene pure i poliziotti, che in questa storia surreale non vorrebbero entrarci. Non sono loro il volto del comitato di salute pubblica. Qui il virus ormai non c'entra nulla. È una scusa. I ristoratori in piazza sono stati puniti per raddrizzare le schiene. È vietato chiedere. È vietato lamentarsi. È vietato sostenere che non tutto sta andando bene. Il virus ha risvegliato i «caporali».

I caporali amano le norme ambigue, quelle dove la libertà è una concessione, un favore, un perdono, una questione personale. Le amano perché è potere arbitrario. È il potere per il potere. Non ha bisogno di doveri e responsabilità. È il cavillo come arma di frustrazione di massa. È a pelle e umorale. Nessuno è innocente e l'onere della prova spetta all'imputato. Non conta cosa fai o perché. Conta chi sei e come il potere si sveglia. È il vigile di Torino che multa il barista del bistrot accanto al Monte dei Pegni.

È andato a portare il caffè ai poliziotti in servizio per strada. Quattrocento euro. Vietato. Ma perché? Non è servizio a domicilio, gli agenti non abitano lì. Eccolo il caporale (e qui non conta la divisa), contagiato dal Conte bis.

È già pronto per lui un posto da consulente.

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