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Quell'identità liberale da riscoprire

Quell'identità liberale da riscoprire

Il segno del fallimento del governo è in quel -0,2% di Pil, con cui l'Istat ha certificato ieri che il Paese è in recessione tecnica. L'immagine della sua inadeguatezza è nell'uscita del premier, Giuseppe Conte, che ha scommesso su una ripresa nel secondo semestre del prossimo anno. Più che un'analisi corretta e attenta della situazione è un modo spregiudicato per spargere un poco di ottimismo da qui al voto europeo. Un gioco delle tre carte per coprire una politica economica che non risolve il problema, semmai l'aggrava. E su cui pesa la spada di Damocle di una possibile manovra correttiva dettata da Bruxelles.

Ebbene, di fronte a questa fotografia del disastro gialloverde l'opposizione in teoria avrebbe uno spazio enorme. E, invece, niente. Da quanto consta il confronto interno dentro Forza Italia verte su quanto si è distanti o vicini dalla Lega di Matteo Salvini. Speculare, per alcuni versi, al dibattito congressuale di un partito in profonda crisi come il Pd, che si consuma sulla distanza che divide i vari candidati alla segreteria dai grillini. Si ragiona basandosi sul consenso di oggi, dimenticando che nella società liquida di Zygmunt Bauman, le fortune elettorali spesso sono effimere, brevi: Renzi docet.

Eppure se avesse un minimo di amor proprio, e consapevolezza del suo passato, il partito di Silvio Berlusconi scoprirebbe che mai come in questi anni ha esercitato una sorta di egemonia culturale sugli interlocutori vicini o lontani. I toni saranno diversi (magari anche discutibili) ma l'agenda di Salvini - dalla flat tax alle pensioni, dai grandi investimenti sulle infrastrutture alla stessa politica dell'immigrazione e della sicurezza - è la stessa su cui è nata Forza Italia 25 anni fa. L'obiezione è che quei traguardi non sono stati centrati: sarà in parte anche vero, ma sicuramente non è che in questi anni la Lega fosse sul trespolo e non al governo con il centrodestra, per cui anch'essa ha avuto le sue responsabilità. Ma a parte ciò, il dato importante è un altro: quella ricetta, aggiornata e corretta, patrimonio dell'intero centrodestra, è ancora oggi la più efficace e coerente per affrontare la congiuntura difficile che il Paese si appresta ad attraversare. Sicuramente più di quel coacervo di proposte contraddittorie e antitetiche che è il «contratto» di governo gialloverde. In quelle pagine, ma soprattutto nella loro attuazione, c'è tutto e il contrario di tutto: c'è un'Italia che guarda allo sviluppo e un'altra che ne ha paura; c'è il lavoro e l'assistenzialismo; c'è chi vuole nuove infrastrutture e chi invece si accontenta delle attuali; c'è chi vuole la Tav e chi la detesta. Addirittura dentro la maggioranza gialloverde c'è chi vuole processare Salvini per gli immigrati della Diciotti e chi si oppone. Insomma, c'è il Paese del «sì» e quello del «no» (copyright del vicepremier leghista). La risultante è che l'Italia sta ferma. E quel -0,2% di Pil, quel concentrato di incognite e di timori che va sotto il nome di «recessione», tacita anche chi risolve tutto rinfacciando al Cav il «patto del Nazareno» o giù di lì. Magari avrà pure le sue ragioni, ma l'inciucio gialloverde è anche peggio: le parole d'ordine grilline non affondano le loro radici nella sinistra riformista, ma in quella del '900. «In certe uscite - ammette un osservatore imparziale come quel vecchio liberale di Giuseppe Basini, portato dalla Lega in Parlamento - c'è addirittura il luddismo dell'800».

Ora compito dell'opposizione azzurra sarebbe quello di mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni e alle sue responsabilità per convincerlo a intraprendere un'altra strada. Invece, stenta. Basta parlare con i veneti, testimoni della distanza che divide sempre più il governo dal paese produttivo, per accorgersi dell'opportunità che c'è, ma non viene colta. «C'è il vizio - racconta Marco Marin - di caratterizzarci al nostro interno, secondo il grado di vicinanza che abbiamo con la Lega. Abbiamo dimenticato la nostra identità». Mentre il coordinatore del partito, Davide Bendinelli, va ancora più in là: «Lo spazio c'è, eccome. La politica economica sta mettendo in difficoltà la Lega. Ma noi dobbiamo tornare a essere noi stessi. Partire da quel 10% che ci assegnano i sondaggi e crederci». «Da noi - confida la lombarda Valentina Aprea - c'è chi guarda a Salvini e chi a Calenda. E, invece, basterebbe guardare ancora a Berlusconi». Il problema è che non c'è politica, ma solo l'ansia di un gruppo dirigente per il futuro. Ci sono i pellegrinaggi ad Arcore per parlare male di questo o di quello. Le lotte per l'ultimo degli incarichi. Ci si preoccupa oltremodo degli umori di Salvini. «Lui - confida Alessandro Cattaneo - trenta di noi non li vuole». Dimenticando che il «capitano» leghista, è un suo punto di merito, applica in politica la strategia militare, si basa esclusivamente sui rapporti di forza: se gli dài un dito, si prende tutto il braccio. «Lui ha scelto i grillini - spiega Mariastella Gelmini - solo perché temeva la loro opposizione più di quella di Forza Italia. Lui rispetta chi teme: per questo non gli liscio il pelo». Solo che c'è un'anima del partito - a parte la posizione politica trasparente di Giovanni Toti - che si preoccupa di assecondarlo e basta. Per reverenza o per interesse. E magari finisce per tenere in piedi un equilibrio politico alquanto instabile. Al Senato, ad esempio, da mesi la giunta per le elezioni, presieduta da Maurizio Gasparri, rinvia l'esame di ricorsi che cambierebbero i numeri della maggioranza: lo stesso Salvini, per effetto di un riconteggio dei voti, dovrebbe optare per essere eletto per un altro collegio rispetto a quello calabrese, che andrebbe alla forzista Michela Caligiuri; mentre in Puglia Carmela Minuto, che qualcuno dice in odore di passare alla Lega, dovrebbe lasciare il posto all'azzurro Michele Boccardi. Se queste sostituzioni andassero in porto, alla fine dei giochi, la maggioranza gialloverde per stare in piedi a Palazzo Madama dovrebbe affidarsi ai voti di due grilline eretiche, come la Nugnes e la Fattori. Invece, tutto è fermo al costo di pagare in questa stagione di risparmi gli stipendi a due senatori in più, visto che quando ci saranno gli avvicendamenti ai «nuovi» il Senato dovrà riconoscere gli arretrati.

In queste condizioni non si può che dare merito a Silvio Berlusconi per il coraggio che dimostra a rigettarsi nuovamente nella mischia, candidandosi alle europee. Una scelta obbligata. Senza di lui probabilmente non ci sarebbe Forza Italia. In un sondaggio della «maga» Alessandra Ghisleri emerge che tra i leader di partito è quello che più rappresenta l'elettorato di riferimento: il 98% di chi vota Forza Italia si riconosce in lui. L'icona c'è, lo spazio pure: secondo la Ghisleri oggi il 10%, ma basterebbe un nulla per arrivare al 14% delle politiche. Bisogna vedere ora solo se il partito sarà l'altezza. C'è bisogno di «discontinuità», di passi indietro, che assecondino quel rinnovamento, basato sulla competenza e rapporto con il territorio, indispensabile per ritrovare un rapporto con il Paese.

E c'è bisogno di riscoprire la propria identità, senza subordinarla al rapporto con chi all'esterno si presenta come un alleato, ma in realtà è un avversario, un competitor.

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