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Il rogo dell'intolleranza contro le teste libere

Bari Weiss è arrivata al New York Times per raccontare gli "altri". Quella schiatta di americani che da lassù, dal grattacielo di Manhattan sulla Eight Avenue, si fatica a vedere. Sono i dannati che votano Trump, nascosti nella provincia, nelle campagne, nei paesotti, con le loro paure, la rabbia, i pregiudizi, le frustrazioni.

Il rogo dell'intolleranza contro le teste libere

Bari Weiss è arrivata al New York Times per raccontare gli «altri». Quella schiatta di americani che da lassù, dal grattacielo di Manhattan sulla Eight Avenue, si fatica a vedere. Sono i dannati che votano Trump, nascosti nella provincia, nelle campagne, nei paesotti, con le loro paure, la rabbia, i pregiudizi, le frustrazioni. Tutta gente che giorno dopo giorno si è sentita scivolare ai margini e non si riconosce, aggrappata ai valori di una middle class che non solo non c'è più, ma ha perso anche il diritto di lamentarsi. Il loro peccato è incarnare ancora il vecchio canone occidentale, quando ormai le élite culturali l'hanno abbandonato da tempo.

Non si sa se Bari Weiss sia riuscita a dare un volto e una voce a questo mondo. Non è la sua storia. Ha 36 anni e viene da una famiglia ebrea non troppo praticante. «I miei genitori mangiavano carne di maiale e andavano in sinagoga solo per lo Yom Kippur. Solo la cena del Shabbat era da non perdere». Il padre commerciava tappeti e votava Reagan, la madre lavorava in un grande magazzino e si è sempre sentita vicina ai democratici. Bari Weiss la sua stagione di forte identità l'ha vissuta dopo il college, quando per un anno è andata a vivere in Israele, nel deserto di Negev, volontaria in un ospedale per i nomadi beduini, un popolo dimenticato e schiacciato dal conflitto tra israeliani e palestinesi.

Torna a casa e frequenta la Columbia University e qui si innamora di una compagna di corso, Kate McKinnon, che ora è una star del Saturday Night Live. L'amore è finito, ma sono ancora amiche. Bari Weiss si dichiara bisex, ma la sua sessualità non ha nulla a che fare con il suo pensiero politico. Se bisogna definirla in qualche modo lei sceglie la parola «moderata».

La sua lettera di dimissioni è diventata un caso. Si è ritrovata sotto attacco da parte dei social. È stata definita «fascista» e «nazista». Par molti suoi colleghi la sua firma è scomoda e inopportuna. C'è una parola che però ricorre in diversi commenti, di quasi tutti i giornali, sulla sua avventura editoriale: controversa. I suoi scritti, i temi che tocca, le idee, le parole, le battaglie contro l'antisemitismo sono controversi e irritanti. È uno degli aspetti centrali di questa storia. Bari Weiss non è trumpiana, il suo peccato è che non è abbastanza anti-trumpiana. Si muove in una terra di nessuno, come un'anomalia, come una che dice: cerchiamo di capire cosa c'è dall'altra parte. Solo che nella «bolla» dei lettori, e dei giornalisti, del New York Times questa è un'eresia. È così che germina il pensiero totalitario.

Questo vale, con meno potenza narrativa, anche nella bolla trumpiana. Qualcuno infatti potrebbe dire che Bari Weiss scriveva nel posto sbagliato. La provincia di cui voleva raccontare lo sguardo non legge il New York Times. La scommessa, però, era proprio questa. Non è andata a buon fine.

Non serve andare al di là dell'oceano per rendersene conto.

Questi sono tempi in cui l'intolleranza è un valore: la verità è una e non ci possono essere sfumature. Il pensiero liberal si rassicura davanti a un nemico che incarna la sua idea di «trumpiano», si irrita e spara se incrocia un cane sciolto. L'unica realtà possibile è quella del bianco e del nero. Chi non si muove in questa logica binaria va eliminato perché avvelena lo scontro di identità. Il gioco dell'informazione vive solo di like e dislike.

Il resto va bruciato vivo.

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