Cronache

Strage dell'Acquasanta, il segreto di Stato compie 98 anni

Una storia in cui anche Padre Pio ha un ruolo importante

Strage dell'Acquasanta, il segreto di Stato compie 98 anni

Compie 98 anni in questi giorni il Segreto Militare di Stato apposto su un documento riservato relativo alla strage dell’Acquasanta, 200 morti causati dall’esplosione del Forte Appio di Roma, il 24 agosto 1917.

Di questa strage solo recentemente sono emerse le reali circostanze e responsabilità, grazie all’inchiesta del giornalista Enrico Malatesta che si è imbattuto in questo dramma lavorando al suo ultimo libro "La vera storia di padre Pio" (edito da Mursia), in quanto il santo del Gargano era stato cappellano militare durante la prima guerra mondiale e uno dei suoi soldati, Alfio Russo, figura tra le vittime.

"Perché apporre un segreto di Stato, se le conclusioni dell’inchiesta vertevano sull’incidente?", si domanda Malatesta che ha ricostruito tutta la vicenda dai documenti dell’epoca, ripercorrendo la vita di Alfio Russo, uno di quegli sfortunati giovani uccisi dallo scoppio della Santabarbara della caserma che si trovava sull’Appia Nuova nella località Acquasanta, dove ancora oggi si trova una fonte molto frequentata dai romani.

"Perché - prosegue a domandarsi il giornalista - quell’opificio bellico dove si costruivano bombe e altri ordigni (senza nessuna attenzione alla sicurezza dei soldati) destinati a rifornire i lanci aerei sulle trincee nemiche, era costituito in due capannoni esterni al perimetro del Forte? Soprattutto: perchè a lavorare in quei due maledetti capannoni, furono impiegati soldati generici, giovani ed inesperti e non invece artificieri specializzati?".

Nel 1919 (a un anno dalla fine della guerra) il Tribunale Militare che aveva avocato il procedimento dal Procuratore del Re del Tribunale Penale, emette la sua sentenza di condanna contro ignoti. Una sentenza iniqua perchè dopo aver indicato un colpevole, lo scagiona in quanto deceduto prima dei fatti.

A dare una risposta certa a questi ed altri oscuri interrogativi è sufficiente un solo ma sconvolgente documento. La confessione, rilasciata nel 1919 (due anni dopo l’accaduto) da un testimone oculare dell’infausta esplosione del Forte Acquasanta. "L’ ufficiale - ha scoperto Malatesta -si era rifiutato, nella sua qualità di preposto all’ufficio di competenza, di collaudare delle spolette difettose, ma i generali non volendo ascoltare le ragioni del suo dire, lo avevano arbitrariamente sollevato dall’incarico per imporre il collaudo ad altro ufficiale, invece estraneo a questa competenza, il quale fece passare per buono il materiale esplosivo palesemente deteriorato".

Nel volume di Mursia, il capitolo più affascinante è proprio quello dedicato alla ricostruzione del periodo militare che vide Padre Pio arruolato nella grande Prima Guerra Mondiale, come cappellano militare nella Sanità a Napoli, pubblicando ben quattro lettere inedite del frate sconosciute anche alla Postulazione. L’ultima, datata 9 marzo 1918, inviata dal letto n.40 dove Padre Pio era degente, è indirizzata a quel ragazzo che meditava in quei giorni, come unica via d’uscita possibile, il suicidio abbandonandosi alla disperazione più totale. Ma le preghiere di Padre Pio e l’imposizione delle sue mani sul capo, mani già impresse dalle stigmate invisibili ricevute nel 1911, gli restituirono la speranza, tanto da fargli dettare un ricco e dettagliato memoriale sull’esperienza militare ma soprattutto sull’incredibile incontro con Padre Pio nell’ospedale militare di Napoli.

Malatesta racconta che Padre Pio probabilmente aveva avuto una premonizione sul destino che attendeva Alfio nella Capitale (dove avrebbe dovuto essere rioperato in seguito a una cancrena) e per questo tentò di non farlo partire. Ma non ci fu nulla da fare, il capitano medico Giannattasio, chiamato "il sarto" per la sua capacità di suturare le ferite, decise il trasferimento al Policlinico dell’Università di Roma (il futuro Umberto I) da dove fu poi spostato per la convalescenza alla Caserma militare di via Appia Nuova.

Ed è lì che dopo solo poche settimane dal suo incontro col frate di Pietrelcina, Russo perirà insieme ad altri 199 giovani soldati nell’esplosione della polveriera dell’Appia Nuova. Non per un atto di guerra, né per un sabotaggio alle strutture, né tantomeno per un accidentale infortunio ma solo, denuncia Malatesta, per il "tradimento" di chi avrebbe dovuto rispondere delle loro giovani vite. Dilaniati dell’esplosione, i loro poveri resti non meritarono neanche il rispetto del proprio nome perché raccolti sommariamente in cassoni della Croce Rossa, in un ammasso confuso, tra ossa, detriti, membra umane e macerie, in una melma fatta di terricci e sangue. "Agghiacciante" fu l’affermazione del dirigente della Questura, presente al recupero dei caduti.

"Ma ben più agghiacciante - secondo Malatesta - è l’oblio riservato al negato ricordo delle loro giovani vite".

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