Diciamo la verità. La decisione di quei margniffoni di Oslo di assegnare il premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, alfiere dei diritti umani che sta scontando 11 anni di carcere fa schifo. In tutto il mondo ci sono solo due Paesi a sostenerlo. Uno è ovviamente la Cina, per gli abietti motivi che siamo andati elencando negli ultimi due giorni. L'altro è Cuba, la Cuba di Fidel Castro e di un veterocomunismo che nonostante i malcerti segnali di apertura all'Occidente fatti vedere da Raul Castro non vuol saperne di gettare la spugna e dichiararsi solennemente sconfitto dalla Storia. E' una specie di vocazione. E come ogni vocazione, nei momenti topici della vita, il carattere, il destino, l'imprinting del regime vien fuori. Soprattutto se il canto della sirena viene intonato dalla "grande madre Cina", alleata del cuore dell'Avana.
La "provocazione" del Comitato per il Nobel, nell'ottica cubana, è "disgustosa" due volte. Perché anche l'idea di appuntare il Nobel per la letteratura al bavero della giacca dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, all'Avana suona scandalosa la sua parte.
Il sito web del governo, Cubadebate.cu, avrebbe preferito che il Nobel per la Pace fosse assegnato al presidente boliviano Evo Morales o alle "Madri di Plaza de Mayo", impegnate contro la dittatura argentina. Per l'Avana, pronta a intonare il verso del tacchino insieme con i "fratelli" cinesi, "non c'è differenza alcuna tra Liu e il genere di "dissidenti" che gli Usa hanno usato per anni come quinte colonne in quei Paesi che dissentivano dall'egemonia americana". Quanto a Vargas Llosa, amico di Fidel Castro fino al 1971, quando ruppe con il regime dopo l'arresto del dissidente Heberto Padilla, gli sgherri del regime castrista non risparmiano il loro sarcasmo. Vargas Llosa, sostiene il sito web del governo, Cubadebate, è "un apostata della sinistra" e "uno degli ideologi più reazionari dei nostri tempi". Il premio, casomai, avrebbero dovuto darglielo "molti anni fa, quando era uno scrittore e non un politico".
Un fantastico salto all'indietro, quello dell'Avana, dopo che il partito della Rivoluzione aveva recentemente accettato di liberare quasi tutti i prigionieri politici in carcere dal 2003 perché giudicati conniventi con il presunto tentativo messo in atto dagli Stati Uniti di farla finita con la Rivoluzione. Era parsa un'apertura foriera di più ampi slanci, come se una reale distensione fosse davvero alle viste. Qualcuno si era spinto fino a scorgere in certe timide aperture all'Occidente una sorta di autocritica del lider maximo nelle "magnifiche sorti e progressive" della Revolucion.
Ma è un'illusione ottica che non incanta chi conosce il regime fin nelle sue intime fibre. Le aperture di Raul Castro, succeduto al fratello dopo il serio malanno che ha tenuto Fidel lontano dalla scena per lungo tempo, non incantano per esempio
Armando Valladores, dissidente della prima ora. «Raul Castro ha sempre inteso mantenere lo status quo. Sfortunatamente per lui, non gode di molte simpatie presso la Cupola che detiene il potere a L'Avana. E sarà lui la prima vittima del dopo Fidel».
Valladares conosce molto bene le dinamiche totalitarie del regime di Cuba, perché le ha vissute sulla sua pelle. Nel 1959, mentre il mondo intero considerava Fidel Castro un sincero rivoluzionario democratico, l'impiegato delle poste Valladares veniva accusato per la sua fede cattolica e per il suo rifiuto tassativo di aderire alla dottrina marxista del nuovo potere. Fu segnalato alla polizia politica per un semplice gesto di dissenso: l'essersi rifiutato di applicare alla sua scrivania una targhetta con lo slogan propagandistico «Se Fidel Castro è comunista, inseritemi nella lista perché la penso come lui».
Eppure, gran parte della stampa occidentale ostenta un sereno ottimismo per il futuro democratico di Cuba. Come mai? Valladores una risposta ce l'ha. «E' un atteggiamento interessato - ha detto in una recente intervista-.
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