«La cultura italiana? Cerchiamola ovunque tranne che nei salotti»

Quando sente la parola «cultura» Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, mette mano alla cinepresa, come per riportare la discussione, via fotogramma, a concretezza di volti e voci. È proprio ciò che accade nel suo ultimo film documentario Se hai una montagna di neve, tienila all’ombra. Un viaggio nella cultura italiana, prodotto da Rai Cinema e Betty Wrong, che oggi verrà presentato fuori concorso al Festival di Venezia.
Nell’agosto del 2009 due «attori», il romanziere Edoardo Nesi e l’editor Bompiani Eugenio Lio, hanno girato l’Italia per porre a più di trecento persone di ogni classe (dai salinari siciliani a Umberto Eco, dalle passanti di Campo de’ Fiori a Battiato, da Giovanni Reale a Laura Morante) una domanda oggi piuttosto anarchica: «Che cos’è per lei la cultura?». Il girato di Elisabetta Sgarbi, più di 150 ore, è stato poi condensato in 88 minuti di indagine sentimentale e sociologica. E anche estetica.
L’idea attuale è che nella mondializzazione si cancellino tutte le differenze, che siamo a un grado Xerox, fotocopiativo, della produzione culturale. Nel suo viaggio cinematografico è riuscita a trovare una «singolarità» italiana?
«In realtà una specificità italiana esiste, perché resiste l’identità di una storia, di una tradizione. Non ho prove per questo, ma basta viaggiare per l’Italia, perdersi nei suoi mille borghi per percepire un’identità sanamente frammentata. Anche nella letteratura sembra sopravvivere - di fronte a tanta semplificazione - l’ideale di una scrittura che sappia essere bella, articolata, non banalmente paratattica. Un lessico ricercato, una pluralità di registri».
Nessuna globalizzazione, dunque?
«La globalizzazione è un’astrazione. Bisogna vedere, leggere, visitare. Incontrare testi e persone, come suggerisce a un certo punto del film Antonio Rezza, per verificare e soprattutto per contraddire le proprie - magari legittime - astrazioni. Questo è uno dei sensi del film. E dell’impossibilità di porre un punto al film, potenzialmente infinito».
C’è chi dice che la vera cultura italiana sta crollando come le vecchie cascine nelle nostre campagne, a vantaggio di un’atmosfera chic e mediatica.
«Nessuno può avere uno sguardo tanto onnicomprensivo da stabilire cosa si sta perdendo e cosa rimane. Si parla di cultura chic, poi però in una campagna puoi trovare un barcaiolo che ti cita a memoria un episodio del Mulino del Po di Bacchelli, o in una salina a Mothia puoi trovare un appassionato di Flaubert. Bisogna resistere alla tentazione di mettere sotto accusa il mondo dell’industria culturale - di cui tutti facciamo parte - attraverso il desiderio e la curiosità».
Il suo film è ispirato a Comizi d’amore di Pasolini, dove la domanda portante era «Che cosa sono per lei il sesso e l’amore?». Dal sesso alla cultura. È un percorso. Ma di che tipo?
«Anche Comizi d’amore era un film sulla cultura italiana: Pasolini intervistava Moravia e Ungaretti, Fallaci e Musatti. La differenza - una delle tante - è di sguardo: Pasolini, perché era Pasolini, poteva esprimere una tesi sul destino della cultura tout court. È la sua tesi. Geniale, discutibile, profetica. A me piaceva l’idea di sottolineare l’esperienza fisica degli incontri, del viaggio, della visione e dell’ascolto: esperienze che possono salvarci dall’ideologia e dall’astrazione. Nel mio film Pasolini è molto evocato dalle persone che ho incontrato, da Merlo a Buttafuoco».
Improbabile fare un viaggio nella cultura senza farne uno nell’ignoranza. C’è un lato oscuro, o pessimista, del suo film?
«Il lato oscuro è quello più in luce. È una certa borghesia finto colta, giovani e meno giovani, di varia estrazione politica, perbene, moralista, che dice di sapere e non sa, di essere informata e non lo è, e che poi troviamo in posti chiave della cosiddetta opinione pubblica. Questo ha una stretta relazione con la vita politica del nostro Paese, con il livello medio degli studenti liceali, delle università e della televisione».
Che ne pensa delle polemiche sollevate dal documentario Senza scrittori di Andrea Cortellessa?
«L’ho visto. È una disamina dei meccanismi editoriali e commerciali. Delle concentrazioni di più aspetti nelle mani di un singolo “editore”. Un punto di vista legittimo e legittimamente parziale. Comunque una questione sicuramente cruciale, quella sollevata da Cortellessa, ma non solo da lui».
Altra querelle dell’estate: gli scrittori under 40.
«Una questione tipicamente estiva: mai fatto analisi della vendibilità degli scrittori in rapporto all’età. Pubblicherò a gennaio un romanzo di Fausta Garavini, mitica traduttrice di Montaigne: è di una forza tale che questioni come queste paiono oziose».
Parole di Gianni Celati: «La “cultura” è per lo più fatta di parole di cui ci si riempie la bocca. Ho abitato a lungo in Africa. Da loro la parola “cultura” è intraducibile.

È l’insieme di tutte quelle attività pratiche e banali, abitudinarie, che ci tengono in piedi. La banalità è il rovescio della cultura».
«Sono assolutamente d’accordo con Celati, ma perché andare sino in Africa per scoprirlo?».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica