Il volume che Raghuran G. Rajan ha dedicato alla crisi dell’economia globale (Terremoti finanziari. Come le fratture nascoste minacciano ancora l'economia globale, Einaudi, pagg. 432, euro 21 euro; negli Usa uscì due anni fa) ha più di un merito. Non soltanto è il lavoro di uno dei migliori studiosi di questioni finanziarie del nostro tempo, ma muove pure dalla consapevolezza che il crollo che abbiamo di fronte agli occhi non abbia una sola ragione, essendo invece il risultato del complicato intrecciarsi di vari fattori. In particolare, per Rajan il «terremoto» va ricondotto a talune «faglie» - è questa la metafora che egli utilizza - le cui origini risalgono alle politiche economiche adottate nei decenni scorsi.
Come mostra Franco Debenedetti nelle pagine introduttive, l’analisi muove dalla consapevolezza che i comportamenti dei principali attori sono stati razionali, ma in un contesto istituzionale (le regole formali e informali) che spesso li ha spinti a fare quello che non avrebbero dovuto fare. L’economista indiano formatosi nella scuola di Chicago, a cui già si deve un volume di successo scritto con Luigi Zingales, non intende assolvere nel loro insieme i banchieri, ma vuole solo enfatizzare come taluni atteggiamenti opportunistici e irresponsabili non sarebbero stati tanto comuni se il contesto non li avesse spinti ad agire in quel modo. Anche se non tratta della crisi europea (che è figlia della bulimia dei nostri sistemi pubblici) il libro potrebbe essere utile anche da questo lato dell’Atlantico, specie per comprendere che l’idea di una Bce quale garante di ultima istanza può solo moltiplicare quelle speculazioni di breve durata e quegli errori di valutazione che, giorno dopo giorno, causano le faglie all’origine dei terremoti.
Rajan è mosso da un pragmatismo eclettico, che - se talora giustifica l’intervento di politici e burocrati - in linea di massima porta a mettere in guardia dinanzi agli esiti inintenzionali dell’azione pubblica. In particolare, egli condivide la tesi liberale secondo cui, per fare un esempio, una larga parte del disastro dei mutui sub-prime è da addebitare a politiche che hanno voluto estendere la proprietà immobiliare anche a chi non poteva permettersela e che, a causa dell’azione di agenzie di mutui sponsorizzate dallo Stato (Fannie Mae e Freddie Mac), hanno imbottito di titoli-spazzatura le banche di mezzo mondo. Queste ultime, d’altra parte, erano persuase che, in caso di problemi, vi sarebbe stato un intervento pubblico di salvataggio da parte del governo federale.
Nell’analisi di Rajan un argomento cruciale è che la società americana è sempre più caratterizzata da diseguaglianza: e questo soprattutto a causa di un sistema educativo che non sempre riesce ad aiutare i meritevoli. L’ampliarsi della distanza tra ricchi e poveri giustificherebbe l’esigenza (e spiegherebbe il successo) di politiche sociali orientate ai consumi: e in particolare della politica monetaria della Fed di Alan Greenspan, che ha tenuto bassi d’interesse e ha favorito quell’espansione monetaria artificiosa a cui ha fatto seguito un risveglio assai duro.
Nella riflessione di Rajan le questioni di ordine etico-giuridico connesse all’egualitarismo non vengono prese in esame, ma solo perché per l’autore è evidente che una società a diseguaglianza crescente è una società meno giusta. Questo assunto non ha in sé nulla di naturale, e anzi è il frutto di una trasformazione dei fondamenti culturali della società Usa: una rivoluzione anti-americana che ha contraddistinto il Novecento. Perché una cosa è allargare gli spazi di mercato, in modo da aumentare le opportunità di tutti, e un’altra è giustificare l’interventismo di quella che nel testo è definita la «decenza morale del governo», frutto di un cambio di mentalità senza il quale la diseguaglianza di per sé non avrebbe giustificato un aumento del potere statale e i disastri che ne sono derivati.
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