La lettura dell'Intervista sul potere rilasciata da Luciano Canfora ad Antonio Carioti (Laterza) genera ammirazione nei confronti di un antichista la cui cultura spazia dalla polis alle rivoluzioni atlantiche, dal Medio Evo all'Europa postfascista e postcomunista. Peccato che tale massa di sapere sia posta al servizio di una causa persa, quella di una vecchia sinistra mai riconciliata col «Congresso di Bad Godesberg, in cui la Spd aveva sposato l'economia di mercato, riducendo il marxismo a una delle fonti d'ispirazione». «Non vorrei passare per un cantore dell'Urss - avverte il professore - dico solo che non c'è un solo modello di sviluppo e che l'organizzazione dell'economia può avere molte declinazioni diverse. Chi teorizza il contrario, ammesso che sia in buona fede, è di parte, ha una visione unilaterale. Vogliamo consentire qualche forma di dissenso o dobbiamo irreggimentarci dietro il culto del massimo profitto fine a se stesso, facendo credere alla gente che è addirittura benefico?».
Già, ma se «l'economia può avere molte declinazioni diverse», perché squalificare, con l'arma dell'ironia, le «vecchie gloriose teorie» di Benjamin Constant? Perché identificare la difesa del mercato - e dell'etica che lo sostiene - con «l'esaltazione di un egoismo esasperato, individuale e collettivo»? La retorica ideologica di Canfora ha un cuore antico: consiste nel pareggiare i vizi di un'economia collettivista con quelli di un'economia liberale, ignorando che i primi - come a esempio il calmiere dei prezzi che fa ritirare le merci dal mercato - sono la conseguenza di leggi e provvedimenti di governi che vogliono realizzare l'eguaglianza e la giustizia, mentre i secondi si iscrivono in una società caratterizzata dal non intervento massiccio dei pubblici poteri sui processi produttivi, nel timore di dover redistribuire la miseria (ciò che non esclude la necessità di leggi sociali volte ad alleviare le condizioni dei meno abbienti, come persino Friedrich Hayek riconosceva).
Canfora non sarà un nostalgico dell'Urss, ma è un antipatizzante di Giovanni Paolo II, il quale contribuì a far cadere il blocco sovietico. Quest'ultimo aveva tanti difetti, ma almeno «non c'era l'asservimento delle donne come merce di esportazione. Le ucraine e le romene affollano i marciapiedi dell'Occidente perché è stato sfasciato quel mondo. Per fortuna nell'aldilà potranno confidare nell'intercessione di Wojtyla». Evidentemente l'antichista non ha mai sentito parlare dei turisti sessuali che si recavano in Russia sicuri di passare indimenticabili notti d'amore, cavandosela con qualche paio di calze di seta.
Questi aspetti dell'Intervista non debbono ingannare. Canfora non è solo un post-stalinista: è uno studioso che, avendo conservato le robuste, per quanto unilaterali, categorie interpretative del materialismo storico, non va confuso con quella sinistra antagonista che non trae più ispirazione da Marx ma da don Gallo. Rispetto ai Rodotà, agli Zagrebelsky, alle Urbinati, alle Spinelli, il suo discorso è il trionfo del politicamente scorretto, sia quando fa rilevare, da togliattiano, la necessità per i grandi partiti politici, usciti malconci dalle ultime elezioni, di trovare un accordo in nome dell'interesse nazionale - «È una visione faziosa quella di chi dice: arrivo primo, vinco e governo da solo», specie quando è arrivato primo grazie a una legge elettorale che avrebbe fatto vergognare quella fascistissima di Acerbo -; sia quando, ricordando le domande a Berlusconi pubblicate, nel 2009, per sei mesi consecutivi sulla prima pagina della Repubblica, commenta «La politicizzazione della magistratura, che sia un fenomeno spontaneo o provocato da fattori esterni, ha svilito quel corpo, lo ha reso un soggetto tra gli altri e il bilancio è davvero sconfortante».
Aveva ragione De Felice quando faceva notare che l'interpretazione marxista del fascismo ne afferrava la natura assai più di quella azionista.
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