Il critico più giovane? Ha 88 anni

Fiducia incrollabile nel valore della letteratura e dell'insegnamento: ecco la lezione di Ezio Raimondi

Il critico più giovane? Ha 88 anni

nostro inviato a Torino

Al Salone del Libro, è l’Uomo dei libri. Il letterato, il bibliofilo, lo studioso. Colui che più ne ha sfogliati, letti, conservati, appuntati. E ascoltati. Le voci dei libri, come ha intitolato il suo ultimo saggio per il Mulino (un «libro sui libri», sulla sua vita e le sue letture) hanno sempre parlato alle orecchie del Maestro, uno degli ultimi delle nostre Lettere, uno che legge la Letteratura, non si accontenta di intrattenersi con i romanzi. E quanto ancora abbiamo bisogno di Maestri, mentre tutti al contrario li ripudiamo! E di Letteratura, mentre in tanti invece la snobbano. Sopravviveranno ancora i maestri al tempo del digitale, quando non si trasmette più, ma ci si «collega», e al tempo dei «motivatori» che hanno preso il posto degli insegnanti?
Ezio Raimondi ha 88 anni - «un viandante giunto alla fine del suo cammino, ma che continua a guardare davanti a sé» -, è il decano dei nostri italianisti, l’ultimo grande critico letterario, e non per forza di cose militante. «La mia - dice - è stata una critica combattente, più che militante: non ho mai polemizzato, ho sempre dialogato. E se mi si riconosce di essere stato un vero critico, sono felice, perché vuol dire che, combattendo, anch’io, un semplice letterato, un umanista, ho dato il mio contributo al presente. Ho fatto anch’io la mia parte».
La sua parte, di insegnate e di critico, Raimondi l’ha fatta per più di cinquant’anni. Ha iniziato a insegnare negli anni ’40, «quando si andava a scuola col grembiule nero e il fiocco blu», e ha smesso da poco tempo, anche se è ancora professore emerito di Letteratura italiana a Bologna. Da filologo e critico il suo lavoro ha spaziato dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini dell’Umanesimo al Barocco fino al ’900. Ha scritto su Dante, Tasso, Manzoni («il mio Manzoni»), Gadda. È stato tra i fondatori della rivista Il Mulino. E ha riflettuto sull’etica della lettura: «Leggo da ottant’anni: sfogliare i libri ormai in me è un gesto naturale, come camminare...».
Oggi Ezio Raimondi fa fatica a camminare, e ancora di più a parlare. Anche se non rinuncia a leggere, anzi. Ormai però esce raramente dalla sua casa sulla collina di Bologna. Ma al Salone di Torino ha voluto venire. Ieri, qui, ha ricevuto il premio per la critica intitolato a Giuseppe Bonura, firma di Avvenire scomparso quattro anni fa. Abito blu e sottogiacca jacquard, gambe deboli ma piglio inflessibile, il professor Raimondi non ha perso lo stile del conferenziere che ti incanta e del docente che ti spiazza. Ha vissuto praticamente tutto il secolo «piccolo» («più che breve»), ha gli occhi appannati e la lingua incespica. Ma è proprio lui, questo elegante signore di 88 anni, il più ottimista qua dentro, quello che crede di più nel futuro. Davanti a una platea che continua a bisbigliare parole sulla crisi, sulla mancanza di certezze, sulla cultura che s’inabissa e sulla scuola allo sbando, il vecchio «prof» dice che la Letteratura è viva e vivrà sempre perché «insegna a dare un senso alla vita e a noi stessi».
Dice che i giovani non vanno motivati, ma «mossi»: a leggere, credere, sperare. Dice che senza i giovani, nei cui sguardi stupiti quando insegnava trovava la motivazione del suo lavoro, non avrebbe fatto tutto ciò che ha fatto: soprattutto leggere, «perché si legge per capire cosa si ha davanti, e nel mio caso davanti ho sempre avuto i ragazzi a cui insegnavo». E dice, lui che pure non rimpiange un passato elegiaco ma vuole che si esplorino nuovi linguaggi e nuovi territori mediatici, che la parola letteraria è ancora l’architrave della civiltà umana, «perché la letteratura dice cose che gli altri linguaggi non dicono: solo un romanzo può esprimere l’interiorità, solo un romanzo può capire i meccanismi degli affetti, solo un romanzo può restituirci il senso della memoria, o del rimpianto, o...».
Solo un romanzo potrebbe raccontare la vita e le letture di Ezio Raimondi, figlio di un ciabattino e di una donna di servizio, amico di Giuseppe Guglielmi, «allievo» di Renato Serra, di Longhi, di Mario Praz... Un ragazzo che si innamora della lettura con i fumetti di Flash Gordon, con Pinocchio, con i gialli Mondadori di Wallace e Van Dine.

E poi da «grande», nel dopoguerra, politicamente scorrettissimo, traduce «l’antipatico e abbietto e grandissimo» Céline e legge, in tedesco, Martin Heidegger, il nazista. «È l’intreccio continuo tra cultura e barbarie». È la sua ultima battuta. L’ultima lezione di una grande maestro.

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