Il Dawkins anti islam zittito in nome dei dirittiil commento 2

di Dino Cofrancesco
H anno destato non poca meraviglia le uscite del biologo darwinista Richard Dawkins che ha sostenuto l'incompatibilità tra i valori democratici e l'estremismo islamista che porta alla segregazione delle donne. Quando l'ateo razionalista maltrattava i «talebani cristiani» era un campione «der libbero pensiero», un vendicatore di quel Giordano Bruno che, per dirla con Trilussa, «fece la fine de l'abbacchio ar forno», ma se solo si azzarda a dare giudizi negativi sul Corano, incorre nell'indignata deplorazione dei giornali liberal e benpensanti che lo mettono sotto accusa per i suoi eccessi. Doppiopesismo? Certo ma il problema non è solo quello di denunciare la bilancia dei due pesi e le due misure ma di individuarne la filosofia. Ebbene non si insisterà mai abbastanza sul fatto che all'origine di uno stile di pensiero, che sta invadendo, come la nera pece fuoruscita da una nave petrolifera, le coste delle due rive dell'Atlantico, si trova il primato della «dignità» sulla «libertà» ovvero il «diritto alla protezione» che si concede a gruppi discriminati (per la razza, la religione, le inclinazioni sessuali, lo stesso status sociale) a scapito dell'autonomia e della responsabilità individuale. Le libertà storiche degli americani, avvertiva già qualche anno fa con preoccupazione Jeremy Rabkin, nell'articolo Islam e libertà di parola (The American Spectator marzo 2009), vengono oggi seriamente minacciate dal reato di diffamazione della religione. Come rileva il Becket Fund di Washington, un'associazione per la libertà religiosa, parlare di «diffamazione» significa «attentare alle basi del sistema dei diritti umani, spostando il baricentro dalla protezione degli individui alla protezione delle idee o delle identità di gruppo». Che ci fossero motivi di inquietudine lo dimostra, tra l'altro, la risoluzione della Commissione dei diritti umani, insediata dall'ONU nel 2005, che nel marzo 2007 stabiliva che «la libertà di espressione deve essere esercitata con responsabilità e quindi va soggetta a limitazioni se si vogliono rispettare il diritto e la dignità degli altri e il rispetto delle credenze religiose». Sennonché gli avversari dell'Illuminismo e del libero pensatore Voltaire non avrebbero potuto far valere le stesse ragioni? Se si affida ai tribunali - e non all'opinione pubblica - il compito di stabilire quando una discussione religiosa si traduce in «linguaggio razzista e xenofobo», come pretende il Centro di monitoraggio sul razzismo e la xenofobia istituito dall'Unione Europea nel 1997, non si ricade nello stato etico? Quest'ultimo, in tutte le sue versioni storiche, non concepisce che una sola libertà - la libertà per il bene - ovvero il dovere di attenersi ai suoi parametri ideali.

Per parafrasare Trilussa, il diritto contemporaneo «sta sprecando troppe cose belle» in nome della dignità. Per difendere i discriminati - veri o presunti - mette in opera agenzie di controllo sociale che resuscitano l'ombra minacciosa del Grande Fratello.

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