E Vollmann sfidò la zona proibita

Lo statunitense William T. Vollmann è un tipaccio. Nel 1982, a 22 anni, per farsi un’idea di come andava la guerra in Afghanistan, si è unito ai mujhaeddin rischiando una pallottola sovietica. Nel 1994, per farsi un’idea di come andava la guerra in Bosnia, si è lasciato coinvolgere al punto da saltare in aria su una mina, salvandosi per miracolo. Sono solo alcuni degli aneddoti su Vollmann, che nel frattempo si è detto maturato: «Ora sono un corrispondente di guerra, prima ero uno scemo di guerra». Un anno fa, subito dopo lo tsunami dell’11 marzo 2011 che ha colpito le coste del Giappone e causato l’incidente nucleare di Fukushima, Vollmann ha voluto farsi un’idea dei danni prodotti dall’onda assassina. Ma non sarebbe Vollmann se non avesse pianificato una missione suicida: arrivare al reattore della centrale disastrata.
Un pazzo? Sì, ma con una strategia (letteraria). Le esperienze da «guerrigliero» sono diventate un’appassionante autobiografia (Afghanistan Picture Show, Alet) e una serie di libri-capolavoro dedicati al tema della violenza (il saggio Come un’onda che sale e che scende e anche il romanzo Europe Central, entrambi editi da Mondadori). Le conclusioni sono feroci. La violenza talvolta è necessaria: «Lo scopo che mi sono dato all’inizio di questo libro (Come un’onda, ndr) è stato quello di elaborare un sistema di calcolo morale tanto semplice quanto pratico che chiarisse quanto è accettabile uccidere, quante persone si possono uccidere e così via». Ci vuole fegato per scrivere una frase del genere nell’epoca del politicamente corretto. Ma il fegato, si è visto, a Vollmann non manca. Come dimostra l’avventura giapponese, da martedì in libreria col titolo Zona proibita. Un viaggio nell’inferno e nell’acqua alta del Giappone dopo il terremoto (Mondadori).
Armato di mascherina e dosimetro per misurare le radiazioni, Vollmann atterra a Tokyo e si spinge fino alle vicinanze di Fukushima, raccogliendo lungo il tragitto le testimonianze di chi ha vissuto la tragedia del terremoto e dello tsunami. Infine violerà la zona proibita, ma rinuncerà a raggiungere la centrale: «Il mio dosimetro non aveva registrato alcun incremento, di recente; per quel che riguardava i raggi gamma, la situazione pareva abbastanza sicura, e questa mia storia sarebbe stata più avvincente se io avessi insistito, ma forse no, perché in fondo cosa avremmo visto se non altre case abbandonate e danni causati dal terremoto e dallo tsunami e poi il reattore, che stando alle fotografie scattate con i droni e pubblicate dai giornali assomigliava a un qualsiasi cantiere fangoso?». Vollmann non nasconde le sue idee (contro il nucleare, per via delle scorie) ma non lascia che facciano velo a ciò che vede. Zona proibita non è un reportage militante, ambientalista o anti-ambientalista.

O meglio, come risulta dall’estratto qui pubblicato, pur essendo alieno da ogni forma di buonismo, è un documento che milita dalla parte della compassione. Dopo la violenza dell’uomo o della natura, c’è il dolore delle vittime. Questo libro è una acuta testimonianza dei modi in cui gli uomini reagiscono o si adattano al dolore.

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