Il futuro alle spalle. Copiamo Michelangelo per ricostruire l'Italia

Biennale di architettura di Venezia. Gli "Innesti" di antico e moderno nella rassegna che documenta la metamorfosi del Paese. Il rischio? Rinnovare senza armonia

Il padiglione Italia della Biennale Architettura di Venezia
Il padiglione Italia della Biennale Architettura di Venezia

All'ingresso c'è l'Archimbuto, un grande portale arcuato in metallo ossidato che dilata in maniera anamorfica il profilo pre-esistente dell'entrata. È monumentale e industriale, figurativo e astratto, ironicamente ambiguo come il nome che porta. All'uscita c'è il Nastro delle Vergini, gigantesca panca-scultura che si snoda lungo il giardino di cui porta il nome, spazio di festa e di sosta, luogo di riflessione e insieme di ozio per il visitatore giunto alla fine del percorso.
Sono i due «innesti» fisici voluti e firmati da Cino Zucchi per il Padiglione Italia che al tema dell'innesto, appunto, si ispira, quasi che l'architettura avesse più a che fare con la botanica e non si fosse di fronte a un'evoluzione lineare, bensì a relazioni inaspettate e che però alla fine compongono un panorama coerente, gemme di modernità che vanno a sbocciare negli interstizi degli strati precedenti. Non è un caso che l'Archimbuto già citato «cresca» negli archi del contiguo portico delle Gaggiandre, attribuito al Sansovino. E non è un caso che, all'interno della mostra, un progetto degli anni Trenta di Adalberto Libera per il «Pantheon in cemento armato» rimandi a un'idea di modernità orgogliosa in grado di competere con la grandezza del passato. Del resto, «Quanta Roma fuit ipsa ruina docet», la grandezza antica è testimoniata dalle sue rovine, ma una civiltà è tale se crea una propria forma e non si accontenta di imitare ciò che è stato.
«Innesti» ha una sua grandezza visionaria, perché parla della «modernità anomala» del caso italiano, innovazione e interpretazione, non adattamento formale e posteriore, e quindi capacità di inserirsi con intelligenza in contesti urbani stratificati. Si tratta, secondo lo stesso Zucchi, di «metamorfosi continue, capaci di trasfigurare le condizioni del contesto in una nuova configurazione. Un atteggiamento visto un tempo come nostalgico o di compromesso, ma oggi ammirato dall'Europa e dal mondo come il contributo più originale della cultura progettuale italiana».

Nella modernizzazione del Paese, Milano spicca come il «laboratorio» per eccellenza, e sua è la parte più rilevante dell'esposizione, il racconto di un secolo urbanistico e architettonico che ne trasforma la struttura urbana e perfeziona il suo passaggio a metropoli. Dai progetti incompiuti per la facciata del Duomo a quelli della crescita della grande fabbrica dell'Ospedale Maggiore, alla ricostruzione del centro dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, sfila davanti agli occhi una città cresciuta «per occasioni» e non per pianificazione. Il suo volto è opera di architetti diversissimi fra loro, Portaluppi e Terragni, Caccia Dominioni e Ponti, Gardella e Asnago, ma il tema dominante è l'inserimento di nuovi edifici alla ricerca di condizioni moderne di vita, all'interno della forma urbana pregressa, la «città che sale» come logica trasformazione scalare di un percorso non preordinato. Nelle altre sale, grandi prismi diversi per forma e profilo sostengono immagini retro-illuminate di progetti contemporanei, una sorta di puzzle che illustra le diversità urbane e di paesaggio del nostro Paese. Una «quadreria» di collage fisici e digitali realizzati sul tema dell'«innesto» dalle giovani generazioni di architetti si interroga poi sul rapporto tra storicità e contemporaneità.

«Paesaggi abitati» è invece il titolo di 300 contributi che danno vita a un grande «mosaico animato» in cui spazio e vita quotidiana documentano l'estrema vitalità e difficoltà della complessità urbana. Una sala, un po' appiccicata in un simile contesto, racconta a sua volta Milano come luogo dell'Expo 2015 e la trasformazione territoriale che la sua presenza provocherà, «Cartoline dal mondo» chiude il percorso: 18 sintetiche letture della modernità italiana da parte di importanti architetti internazionali che hanno incontrato la nostra cultura nel loro lavoro o nella loro riflessione storica.

Ciò che resta fuori dal Padiglione Italia è l'interrogativo che la «teoria dell'innesto» suggerita da Zucchi provoca. Nella nuova sistemazione del Campidoglio, Michelangelo ingloba i palazzi preesistenti, così come, secoli dopo, per il concorso del romano Palazzo del Littorio i concorrenti sono chiamati a confrontarsi felicemente con le imprescindibili presenze del Colosseo e della Basilica di Massenzio e, insomma, sino ancora alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, c'è una sorta di interna armonia fra l'Italia del passato e quella chiamata a sostituirla.

Dopo è come se fosse andata perduta, nonostante la scuola architettonica italiana continuasse a brillare, sia pure per singole eccellenze. È come se più che innesti si debbano registrare rigetti e un'anomala fisiologia sia divenuta nel tempo una distruttiva patologia.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica