Grandi opere, piccoli vizi. Ecco chi fu Livio Garzanti

È stato l'ultimo "editore-padrone" di razza, dal carattere impossibile ma con fiuto unico.

Grandi opere, piccoli vizi. Ecco chi fu Livio Garzanti

I caratteri dell'editoria in qualche modo si assomigliano tutti: Garamond nella sua infinita gamma. Ma il carattere degli editori, beh insomma... Quello di Livo Garzanti, ad esempio, non solo era unico. Ma anche - diciamo così - particolarmente difficile. Uomo dai sentimenti gelidi, e autore di un romanzo dal titolo L'amore freddo, era scostante, imprevedibile, contraddittorio, beffardo, insopportabile, capriccioso. Del suo collega Giulio Einaudi (altro editore al limite dell'indisponente), ad esempio, diceva: «Un presuntuoso e un comunista megalomane». Il divo Giulio e don Livio. Di sé, invece, ultimo esemplare di quella gran razza di editori-industriali che ha fatto grande l'Italia, quando ancora c'era una vera società letteraria, riconosceva: «Ho fatto questo lavoro come avrei potuto fare il barbiere. Mica sono un eroe della patria. Sono un merlo, un figlio di papà».
Figlio di papà Aldo, il quale costruì un impero economico con la chimica (che assicurerà sempre alla maison consistenti profitti...) e poi si dilettò coi libri, rilevando nel 1938 la Fratelli Treves, Livio Garzanti prese di fatto la direzione della casa editrice nel '54, portando nei rapporti e nelle scelte professionali - a detta di chi lo conobbe bene - gli stessi difetti del suo temperamento. Quello di un padrone «illuminato», ma padrone. Di un uomo capace di affezioni e disaffezioni viscerali (ne sapevano qualcosa Pasolini, Soldati, Volponi...). E che gestì un'organizzazione del lavoro in bilico tra forme di avanzata modernità e di arcaico accentramento.
Dicevamo di quelli che lo conobbero bene. Più di tutti, avendolo frequentato e studiato a lungo, Gian Carlo Ferretti - princeps della storia dell'editoria italiana, che compie 90 anni, a proposito: «Auguri» - il quale a Livio Garzanti dedica una precisa e per molti tratti inedita biografia: Un editore imprevedibile (Interlinea).
Imprevedibile, lunatico, indubbiamente geniale, qualcuno dice nevrotico, arrogante forse perché timido, per fortuna mai ideologico, elegante ma che sapeva essere volgare al momento giusto (Armando Torno, che negli ultimi anni andava spesso a trovarlo nella sua casa milanese di via della Spiga, ricorda che amava ripetere, forse per vezzo: «Che razza di mestiere di merda è il mio») e soprattutto contraddittorio: negli umori e nelle scelte. Contraddizioni e mutevolezze - ecco la tesi di fondo di Ferretti - che si ritrovano anche nella produzione editoriale, «dove si alternano collane prive di identità e collane ben definite, grandi narratori e poeti accanto a romanzi commerciali, edizioni raffinate e hard-boiled basso». Insomma, la doppia personalità di Garzanti - schiva e autoritaria, disponibile e padronale - è speculare agli alti-bassi della linea editoriale: che alterna premi Nobel e la collana «Romanzi moderni», Auto da fé di Elias Canetti e la popolarissima serie Angelica dai coniugi Anne e Serge Golon, i «Saggi» d'autore di Ezra Pound e Gottfried Benn e «L'età d'oro del fumetto» curata da Attilio Bertolucci e Oreste del Buono, la ricercata collana di Poesia e i romanzi della moglie Gina Lagorio, l'altissima Storia della letteratura italiana Cecchi-Sapegno e le vendutissime «Garzantine» (citiamo dalla intervista inedita, datata 2000, in appendice al volume di Ferretti: «E comunque è con l'editoria scolastica e le enciclopedie che ho fatto molti soldi, non con i romanzi»). Grandi opere e piccola umanità.
Si parla di Livio Garzanti come del padre-padrone dei libri che scoprì Gadda e Pier Paolo Pasolini. Sì, certo. Ma dall'altro lato del catalogo spuntano Colazione da Tiffany e Mike Spillane, Love Story (350mila copie in pochi mesi nel 1971!) e Michael Crichton, la serie culto di 007 e Giorgio Scerbanenco (che prima di Garzanti era specializzato in rosa, e qui passerà al giallo), la Mitteleuropa di Magris e la sociologia pop di Alberoni. Aspirazioni internazionali, restando milanesissimi.
Guidato, soprattutto all'inizio, dal gruppo dei parmensi (dal grand gourmand delle Lettere italiche Attilio Bertolucci al coltissimo Pietro Bianchi) e poi da un indubbio fiuto libresco, Livio Garzanti per farsi notare nei salotti letterari, che snobbava cordialmente, e sugli scaffali delle librerie, che curava personalmente, puntò anche sulle copertine scioccanti affidate a Fulvio Bianconi, che arrivava dalla pubblicità, e su opere innovative e quando possibile - perché no? - scandalose. Tre titoli (non) a caso: Ragazzi di vita di Pasolini, caso letterario del secondo Novecento, esploso nel '55: scrittore e editore finirono a processo «per oscenità», uscendone assolti. Il prete bello di Goffredo Parise, del '54, uno dei primi best seller italiani del dopoguerra. E il leggendario Pasticciaccio: libro difficile, dal finale sospeso, plurilinguistico e che pure - nel '57 - vendette 6mila copie in pochi mesi, trasformando Gadda da scrittore stimato in una ristretta cerchia di critici ad autore noto al grande pubblico.
Già, i suoi autori... Dalla storia dell'editoria al pettegolezzo da salotto il passo è un'interlinea. Ecco qualche malignità. Carlo Emilio Gadda: formale e «cerimonioso fino alla comicità», esattamente il contrario della sua scrittura («Una volta si presentò alla sede della Garzanti di Roma con un completo blu, salutandomi con un inchino»). Parise, con il quale ebbe un rapporto di amore-odio: lo vessava ma portandolo in palmo di mano (l'aneddoto più divertente, non riportato dalla biografia di Ferretti, ma che ci deriva da racconti raccontati, è quello di Parise che nei primi anni Cinquanta viene assunto in Garzanti: lo accoglie il Padrone, il quale lo porta in un piccolo locale, un ex gabinetto, con un tavolino sopra la turca cementata: «Questo è il Suo ufficio»). E Giovanni Arpino, più perfido di lui: una volta in casa editrice qualcuno chiese dove fosse il figlio di Livio, che faceva il geologo, e il grande scrittore rispose: «In qualche caverna, pur di non vedere il padre» (un ricordo non di Ferretti, ma nostro). E Pasolini, naturalmente: tra i due i rapporti non furono mai semplici, poi accadde che Garzanti pubblicò «un libro brutto di successo» di Alberto Bevilacqua (scrittore che Pasolini detestava fin dallo Strega 1968, quando L'occhio del gatto batté il suo Teorema) e così PPP si trasferì armi, libri e bagagli in casa Einaudi. Tiè!
Che tempi. E che editoria. Quel mondo non esiste più (Livio Garzanti se ne è andato nel 2015, dopo aver venduto l'azienda negli anni Novanta a Utet e Messaggerie, mentre oggi il marchio fa parte del gruppo GeMs).

E del resto, chi è l'editore che alla sua morte può lasciare - al netto dell'impero chimico di famiglia - 90 milioni di euro (sic) a un'associazione che si occupa di assistenza agli anziani? Solo un «imprevedibile», appunto.

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