Cultura e Spettacoli

Isotta, lo scugnizzo dandy che non suona a comando

Nel 1978, l'allora ventottenne Paolo Isotta lasciò la rubrica di critico musicale di questo giornale, da lui inaugurata che ne aveva appena ventitré, per andare ad assumere quella ancora più prestigiosa, come testata, del Corriere della Sera. In omaggio a «La Cultura» dell'epoca, in via Solferino e nei «salotti buoni» musical-democratici della città si dovette pensare che questo Isotta, che citava con dovizia Borges e Goethe, Spengler e Guenon, Schneider e Nietzsche, Burchardt e d'Annunzio; usava l'arma della critica con piglio feroce; spregiava il moderno per il moderno e tutta la pletora di neoregisti, neomusicisti, neostrutturalisti da baraccone, non avesse poi le carte così in regola per poter entrare nel Pantheon delle «Libertà». E così ne ottennero la messa al bando, quasi fosse un misto o una somma fra Erostrato e il boia di Albenga.
Fra ordini del giorno, comunicati, assemblee, manifesti con tanto di firma, la cosa assunse aspetti talmente grotteschi, trascinandosi nei suoi effetti fino alla metà degli anni Ottanta, da valere come testimonianza dell'Italia d'allora. Ma allo squallore in sé di una vicenda che solo la penna di un Gogol potrebbe restituire a una godibilità sia pure amara, si aggiunse la canagliata di tutto un mondo, quello della carta stampata, che, tranne rari casi, gli fece intorno terra bruciata. Si spiega anche così perché I sentieri della musica, libro uscito da Mondadori subito prima dell'ostracismo solferinian-scaligeriano, non ebbe recensioni: solo brevi e fugaci segnalazioni, un «qui lo dico e qui lo nego», hai visto mai l'autore fosse tornato un giorno alla ribalta...
Trentacinque anni dopo, l'estraneità, usiamo questo eufemismo, di Isotta al conformismo della cronaca e della storia, musicale e no, viene ancora una volta certificata dall'incredibile decisione del Teatro alla Scala, e se da un lato la difesa del suo critico da parte del direttore del Corriere della Sera fa onore a quest'ultimo e riscatta l'ignavia pregressa, dall'altro mette in evidenza come nell'Italia cultural-istituzionale, incredibile pasticcio di pubblico e privato, prebende e favoritismi, meschine lotte di potere mascherate da crociate intellettuali, la musica, mai termine fu più appropriato, sia sempre la stessa: suonare a comando. E poi applaudire.
Paolo Isotta è uno specialista con in più il buon gusto del dilettante, nel senso etimologico del termine. Nelle sue critiche la musica si mischia alle lettere, cede il passo alla pittura, corre incontro alla cultura, delicatamente polemizza con la memorialistica. È raro trovare uno studioso che parlando del Tancredi di Rossini, riprendendo un motivo goethiano, lo paragoni a una favola boschiva di Poussin, il pittore della campagna romana, della luce dorata che immerge, in armonici rimpianti, immagini e sensazioni. Ma ancora più raro lo studioso diviene se, dopo averci illuminato sul «teatro totale» di Wagner e sulla messa in scena dello stesso da parte di Adolphe Appia, spogliatosi dei panni del critico musicale si avventi in divertissement personali e unici contro le «tetralogie» attualizzate, quelle per intenderci dove Brunilde è una lavandaia, Alberico un barbone, Sigfrido un diciottenne segaiolo, eccetera, eccetera, tutte glorie, negli anni, della moderna regia operistica.
Fra i libri da lui scritti, oltre al già citato I sentieri della musica, vale la pena ricordarne soltanto un altro, che vale per tutti, quel Il ventriloquo di Dio che Giorgio Zampa, germanista e firma del Giornale, definì il contributo più completo sui rapporti esistenti fra Thomas Mann, Nietzsche e Wagner. Uscì nel 1983, quando fra via Solferino e piazza della Scala il suo autore era ancora tabù.
Isotta è napoletano, con tutti i pregi e i difetti di una napoletanità che sopravvive al disastro della città che li ha partoriti. Come succede con le persone di carattere, ha un cattivo carattere, bizzoso e intollerante, a volte maniacale, e insieme generoso, paziente, amabile. C'è in lui un elemento «scugnizzo» che solo chi conosce la realtà di Napoli può comprendere, il combinato disposto di plebe e aristocrazia, popolino e borghesia che anima il suo centro senza barriere economiche e sociali, un intreccio unico che ne è insieme tormento e estasi. Coniugato al dandismo, l'essere scugnizzo è spesso una miscela esplosiva. Una volta Isotta mise le mani addosso a un critico che lo aveva definito «un nibelungo napoletano». Avvenne a Capri, in piazzetta... Un'altra, quando era ancora critico del Giornale, rischiò di essere strozzato dal baritono Renato Bruson nei camerini dell'Arena di Verona. Un paio di mesi prima, piccato da una recensione sfavorevole, Bruson aveva chiesto per iscritto il suo licenziamento a Montanelli, Montanelli aveva girato, per conoscenza, la lettera a Isotta e Isotta aveva a sua volta scritto una falsa risposta, firmandosi Montanelli, dove dava ragione all'irato baritono, rassicurandolo che avrebbe provveduto di lì a breve alla cacciata...
Chi ha avuto finora la pazienza di leggermi, potrà obiettare che il mio è un ritratto amicale e non imparziale. Ha ragione. Sono amico di Isotta da quarant'anni, se metto insieme la conoscenza diretta e quella che mi veniva da frequentazioni comuni, e se c'è una cosa che tengo ferma nella vita è la fedeltà alle amicizie, di là da pettegolezzi, incomprensioni, opportunismi. Credo che la più bella e più sincera definizione di se stesso l'abbia data in un libro, C'eravamo tanto a(r)mati, da me curato insieme con Maurizio Cabona. Il suo intervento lo intitolai, non a caso, «Manuale di decomposizione». «Alla musica penso moltissimo, più che a ogni altra cosa, si può dire, ma non ne parlo quasi con nessuno; la lettura è un piacere solitario, un po' da vizioso, e l'ho sempre praticata per dimenticare completamente chi io sia, anzi, il fatto che io sia, che io esista, annullarmi nell'obiettività di ciò in cui mi immergo. Non mi piacevo, è certo; non mi amavo: per niente. In questo non sono cambiato. Avrei voluto, per mille ragioni, e vorrei, essere diverso, essere completamente un altro. Imparare a sopportarmi, ancora non ci sono riuscito».

Nemmeno gli altri, ma è tempo che se ne facciano una ragione.

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