Coronavirus

L’arresto domiciliare ci porta un’estetica tragica e umoristica

Anche le creatività adesso lavora "da remoto". Fra immagini apocalittiche e segni di rinascita

L’arresto domiciliare ci porta un’estetica tragica e umoristica

Faccio fatica ad immaginare che cosa stimolerà il Coronavirus in poeti, scrittori, saggisti, artisti e musicisti. Molto mi arriva attraverso il telefono, e so anche di editori che si muovono per pubblicare libri di autori che non avrebbero mai voluto, se non con sussiego e magari sponsorizzazioni di case farmaceutiche. Ovviamente le vendite avverranno attraverso Amazon. Così Roberto Burioni sta pubblicando per Rizzoli Virus, la grande sfida, dal Coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità; mentre La nave di Teseo si appresta a pubblicare un libro “viruscettico” di Maria Rita Gismondo. La Gismondo ancora resiste in trincea, dicendo (fino a tre giorni fa) quello che non si può dire: «Sappiamo tutti che questo virus è diffuso nella popolazione molto più rispetto a quello che stiamo vedendo. Tra poco il 60-70% della popolazione risulterà positivo. Ma non dobbiamo preoccuparci. Con l’aumento dei numeri ci renderemo conto che questo virus è meno letale di quanto possiamo pensare adesso (...) prima di dichiarare i morti, è importante fare le autopsie e riuscire a dire di cosa sia morto il paziente». Poi ci sono i filmati sulla «Bella Italia», come se molti la vedessero per la prima volta, alcuni anche confessandolo. In realtà, sarebbe l’occasione per vedere alcune città, normalmente ammorbate di turisti, nella loro identità perduta: meravigliose strade e piazze vuote, da Venezia a Siena, a Roma, come mai si sarebbero potute immaginare. E anche “non” vedere in questa condizione privilegiata, con le restrizioni anche per chi voglia passeggiare da solo. Forse, tra le forme creative va anche contemplato il potere, che determina misure di coercizione irragionevoli e deliranti su un popolo rassegnato e impaurito, che si vergogna di protestare o se lo consente nel silenzio, fra mille contraddizioni. Restano i ribelli, come Morgan, che scende in strada con un gesto di sfida, in monopattino, a cantare ai cittadini affacciati al balcone: «Le brutte intenzioni, la maleducazione, la tua brutta figura di ieri sera, la tua ingratitudine, la tua arroganza, fai ciò che vuoi mettendo i piedi in testa, ma tu sai solo coltivare invidia, ringrazia il cielo se sei su questo palco, rispetta chi ti ci ha portato dentro, e questo sono io», all’indirizzo del suo ultimo nemico. Morgan si commemora: come sono lontani i tempi in cui il male aveva il volto di Bugo e non l’infetta, strisciante insidia del virus! Non possiamo far sentire la musica su questo giornale, ma oggi Morgan mi manda il suo inno per i giorni migliori, Rinasceremo. Certo, mai come in questo tempo, dopo la morte civile cui siamo stati costretti, ha forza evocare il pensiero di un “Rinascimento”, politico e morale, civile e religioso. Intanto è un auspicio di Morgan. E il virus genera mostri. Circola un video dove il virus si personifica e parla, spiegando le misteriose ragioni della sua azione che riporta gli uomini a ritrovare se stessi. Un altro propone capolavori di Renoir, Monet, Magritte, Miró, Kandinsky, Boccioni, Hopper, Seurat, Michelangelo, Raffaello, Picasso, De Chirico, Klimt, Frida Kahlo, Caravaggio, Goya, sottotitolati per adattarli alle condizioni cui siamo sottoposti. Uno, fra tutti, dice più oggi che nel suo tempo. È L’urlo di Munch in cui vediamo solitudine, malattia, disperazione, morte; e (come non è della paura, che discende da un male certo) angoscia, che viene da un male di cuinon conosciamo la causa, insidioso, subdolo. L’uomo di Munch fugge da qualcosa, esattamente come il virus, di cui non conosciamo l’origine e per cui non abbiamo il rimedio. Altre immagini dolenti, e tutte espressionistiche, mi arrivano. Filippo Martinez me ne manda una che non so se sia sua, e si manifesta entusiasta, in particolare, di un cartone animato nel quale io appaio come Sgarbi-Mazinga, inviando contro il mostruoso virus multiforme pugni capra, pugni rotanti, boomerang capra e cipolle capra. Ironia, comicità, divertimento. Un’altra dimensione certa, in cui si muove la creatività, è, inevitabilmente, quella dei bambini e degli studenti, costretti a una sosta forzata, e, in misura sicuramente superiore e focalizzata sulla situazione di emergenza, con una vacanza obbligatoria, senza libertà di movimento, stimolati a raccontare la cronaca del loro rapporto con un virus che non li riguarda ma li coinvolge. Una creatività spontanea e non scolastica, da ogni punto di vista, “disorientata”. Martinez mi manda una Ultima cena alla quale nessuno, neanche Gesù, partecipa, diversamente dalla profetica (1995) interpretazione che ne diede Lorenzo Alessandri, in cui almeno Cristo c’era. Da tempo Martinez promuove l’idea di un’arte nuova denominata “Keacam”, da una fusione tra Buster Keaton, con la sua statuaria impassibilità, e Achille Campanile, con i suoi quieti paradossi. Ora pensa più semplicemente alla “Coronart”, riflettendo sul fatto che la situazione creata dal Coronavirus in pochi giorni ha smantellato la cattedrale di arroganza, di certezze, di miti, di presunzione, di aspirazioni, di pretese che la società aveva trionfalmente costruito in questi ultimi settant’anni costringendo l’umanità a recuperare quel senso della morte che con ogni mezzo, aveva cercato di rimuovere, di travestire. E recuperando il senso della morte, inevitabilmente, si recupera il senso e il desiderio della vita. Così, liberandosi dal mercato e dalla vanagloria, sta rinascendo prepotentemente l’Arte. Un’arte senza nome, che scatena immagini universali e apocalittiche, espressione del genio degli anonimi, che spesso nella storia si riaffaccia. Un’arte che giunge dall’allegria, dalla riflessione e dal nobilissimo senso del tragico (Kea), sconfinante nel comico (Cam), di autori quasi sempre sconosciuti. «È un’arte che non sfrutta i generi canonici; non ha la spettacolarità degli affreschi, la solennità della scultura, la potenza dei cori con l’orchestra dal vivo, ma gioca con intelligenza, sensibilità, humor e talvolta ferocia, con mezzi agilissimi: brevi video, meme, WathsApp che, sfruttando i linguaggi contemporanei, “vanno in vena” in un istante e trasmettono stupore, sorrisi e spesso - ben camuffati - profondi spunti di riflessione» (Martinez). Ne è propriamente esempio La cena abbandonata: in quest’opera l’artista anonimo, con una folgorante intuizione poetica e un uso sapiente del photoshop, è intervenuto cancellando gli apostoli e Gesù dall’immagine della celeberrima Ultima cena di Leonardo, capolavoro dipinto a secco tra il 1494 e il 1498 nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Nella stanza vuota campeggia la scritta “Qui a Milano stiamo esagerando”. Martinez osserva: «L’opera diffusa mentre in città cresce il panico per l’avanzante pandemia crea in chi guarda una sensazione di sorpresa, divertimento e profonda inquietudine. È un’immagine che parte dal Rinascimento, attraversa la pop art, la conceptual art e approda nell’ineffabile spazio neurometafisico della Coronart». Sta per definirsi una estetica nuova, per così dire, “di rapina” che ripropone e reinterpreta immagini già date, ma non ancora esaurite, come fecero Duchamp, Dalí e Gnoli con la Gioconda. Dal mio rifugio a Roma è questo che percepisco. E Milano è vuota, ogni cena sospesa, ogni appuntamento rimandato. Tutto accade “da remoto”. Intanto, anch’io non voglio perdere l’opportunità, e sto scrivendo a quattro mani, con Giulio Giorello, in quotidiano collegamento telefonico, il saggio, quanto mai pertinente, su Arte e scienza. Alla fine di questi giorni vedremo cosa rimarrà di fantasie, incubi, sogni, turbamenti, deliri e, forse, perfino ragioni, purché non sia, come canta l’Ariosto, parlando della ricognizione di Astolfo sulla luna: «e vi son tutte l’occurrenze nostre:/ sol la pazzia non v’è poca né assai;/ che sta qua giù, né se ne parte mai». Sulla luna, solitaria sempre, silenziosa, come oggi è la Terra.

O che non sia che, ora, noi siamo proprio come ci vede la luna di Leopardi: «Pur tu, solinga, eterna peregrina,/ Che sì pensosa sei, tu forse intendi,/ Questo viver terreno,/ Il patir nostro, il sospirar, che sia;/ Che sia questo morir, questo supremo/ Scolorar del sembiante,/ E perir dalla terra, e venir meno/ Ad ogni usata, amante compagnia».

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