Pubblichiamo Breve storia di un'armatura, il testo che Mauro Covacich leggerà alla Milanesiana il 27 giugno. Covacich (Trieste, 1965) ha pubblicato libri di narrativa, soprattutto per Einaudi tra cui: A perdifiato, Fiona e L'esperimento
Correvo, nuotavo, mi piacevano tutti gli sport. Dovevo iscrivermi all'Isef, fare l'insegnante di educazione fisica - la ginnastica la capiscono tutti - invece mi iscrissi a filosofia. A cosa serve la filosofia? Passavo a prendere mio padre alla bocciofila con la sua Fiat 128 e mi interrogavano: «A cosa serve la filosofia?» Erano ferrovieri, autisti di autobus, i classici buontemponi da dopolavoro. Mio padre si imbarazzava per il mio imbarazzo. «Pensa a una cosa da rispondere se te lo chiedono». Quando mia madre mi riferì che anche le sue colleghe restavano perplesse, azzardai che forse si poteva aggirare l'ostacolo: «Non dite filosofia, dite estetica». A quel tempo seguivo nel modo più fanatico che si possa immaginare le lezioni di Pier Aldo Rovatti e Maurizio Ferraris, l'estetica era l'armatura con cui avrei sfidato il futuro, ne ero certo. Teorie sul potenziale veritativo dell'arte, concetti smaglianti con cui inoltrarsi al galoppo nelle contee dell'età adulta. Così mia madre cominciò a dire in fabbrica che studiavo estetica. Lo disse anche alla nostra vicina di casa, una bella signora molto curiosa, che si era lasciata da poco col marito e mi elargiva grandi sorrisi quando ci incrociavamo per le scale. «Studia estetica» diceva mia madre. Sicché anche la signora Ondina sembrò soddisfatta e smise di chiedere (ma non di sorridermi).
Curiosamente, questa nuova veste di studente di estetica aveva messo a tacere le domande, sia nella bocciofila che nel condominio. Non saprei dire se mi considerassero fortunato, di sicuro non consideravano fortunati i miei, i quali dovevano tenersi in casa un ragazzo di vent'anni che non sarebbe diventato né un medico né un ingegnere né un commercialista. Però ora sembrava che tutti mi riconoscessero una funzione precisa nel mondo. Solo più tardi seppi perché.
Inutile dire che furono gli anni più belli della mia vita. Mi alzavo, facevo colazione - le fette biscottate già imburrate, il kiwi tagliato a fette, le piccole carezze di mamma - e andavo a sentire Gianotti che parlava di Zenone, o la Benussi che parlava di Calvino, o Claudio Magris che parlava di Kafka (l'esame però lo scansai perché non sapevo il tedesco). A pranzo trangugiavo un toast al bar dell'università e poi correvo a sentire l'immenso Mario Martina che traduceva l'Eneide. Dopo cena, se restavo a casa, leggevo la Recherche, le Operette morali, Verità e metodo, e anche sì, cominciavo a scrivere i primi racconti. Se invece uscivo, finivo in locali fumosi e pieni di vino scadente dove, insieme a quattro gatti simili a me, discutevo di riduzione fenomenologica e gettatezza dell'esserci mentre in sottofondo un impianto sempre con troppi bassi diffondeva la voce vellutata di David Byrne ancora in versione Talking Heads. Si poteva desiderare una vita migliore? Venivo mantenuto per inebriarmi - ma sarebbe più giusto dire strafarmi - con le opere più stupefacenti che la mente umana avesse mai concepito (droga davvero pesante) insieme a ragazze e ragazzi che mi assomigliavano in tutto, gente che amava scervellarsi sulle performance di Marina Abramovic, che litigava sui film di Tarkovskij in stretto heideggherese, secchioni incalliti con cui mi sarebbe piaciuto fondare uno Stato e che ora, lo dico ai più giovani, forse potrebbero ricordare Lisa Simpson. A che serviva la filosofia? Non lo sapevo, né mi importava granché.
Con la malattia e poi la morte di mio padre le cose si chiarirono da sole: il dolore ha questo potere. Passavo sempre più tempo a scrivere, era l'unica attività che mi placava. A cosa serviva scrivere? Cosa stavo scrivendo? Non ne avevo la più pallida idea. Ma passavo intere nottate a riempire vecchi quaderni Pigna con la regione sulla quarta di copertina, ve li ricordate? Li acquistavo in stock da dieci in una cartoleria che li svendeva perché fuori moda (ora su ebay sono tornati merce richiestissima). Di quel gesto ricordo solo la sensazione magnifica di dimenticarmi di me stesso, mi perdevo e al contempo mi centravo. Mi sentivo bene lì dentro, ma non sapevo ancora che sarebbe diventata la mia nuova casa.
Scrivendo - e studiando gente che scriveva e studiava - ho affrontato tre stagioni di bagnino, una di animatore in un centro di salute mentale, cinque anni di precariato e tre di ruolo nella scuola pubblica, prima di licenziarmi e tornare alla vita che facevo da ragazzo. Pochi soldi, nessun capo, solo letteratura. A parte lo sbigottimento di mia nonna, centenaria analfabeta che mi ha visto invecchiare tra i libri mentre mio cugino già a vent'anni aveva aperto la sua agenzia di viaggi, non nego di aver avuto parecchie soddisfazioni. Grazie alle risposte azzeccate al Trivial Pursuit, ad esempio, mi è capitato anche di recente di attirare le attenzioni di qualche avvenente quarantenne laureata in economia o scienze politiche.
Queste cose - tante o poche che siano - so di doverle alla fortuna? Sì, certo, alla fortuna di aver avuto due complici per genitori e di non essermi fatto intimidire dall'assurdità: ho scelto l'o(t)tativo, ho o(p)tato per il desiderio - dio, quanto amavo questi giochetti grafici! - il principio di piacere a dispetto del principio di realtà. In fondo, restare «folli e affamati» può rivelarsi una buona prospettiva esistenziale anche se non si diventa Steve Jobs.
A proposito di avvenenti quarantenni, la mia vicina di casa aspettò che mi laureassi per chiedermi se intendevo mettermi in proprio o andavo a lavorare presso un salone già avviato. Massaggi e cerette, ecco cos'ero nella mente della signora Ondina. Non ebbi il coraggio di dirle che, nonostante avessi studiato estetica, non sarei mai diventato estetista.
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