Cultura e Spettacoli

Se ne va Doctorow, la coscienza degli Usa (e del XX secolo)

Dalla guerra civile ai giorni nostri i suoi romanzi sono testimonianze dei passaggi-chiave della modernità

Se ne va Doctorow, la coscienza degli Usa (e del XX secolo)

È morto a 84 anni E.L. Doctorow, autore di romanzi come Ragtime e La marcia . È deceduto l'altro ieri in ospedale a New York, città di nascita. Considerato uno dei maggiori autori del XX secolo, Doctorow ha vinto il National Book Award e due volte il National Book Critics Circle Award. I suoi libri sono editi in Italia da Mondadori.

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I giganti se ne stanno andando un po' alla volta, l'ultimo è Edgard L. Doctorow. Ora ne restano una manciata. Tutta la vita a far suonare una macchina da scrivere, cercando una via di fuga al Novecento, fino a perdersi in questo tempo che sembra non avere futuro, rovesciando le note del romanzo americano, senza mai davvero in rinnegarlo, perché il passato non si butta, ma si scrive, si riscrive, qualche volta si inventa, fino a portarlo ad altezza dei nostri occhi, rimisurando lo sguardo. Ti perdi e ti riconosci e non importa se sei Obama o il signor Frank di Atlantic City. «Scrivere un romanzo è come guidare di notte: non vedi nulla oltre a ciò che i tuoi fari illuminano, ma puoi fare l'intero viaggio in quel modo».

Doctorow bussa al capolinea con un nemico nei polmoni. Non deve aver avuto paura neppure del tumore. Lo ha ascoltato, ci ha parlato, come ha fatto con tutte le anomalie e gli incroci che hanno deviato il destino dell'America. L'empatia, l'arte di interpretare la vita con lo sguardo degli altri, è forse una delle maggiori forme di intelligenza, e i romanzi di Doctorow sono un caleidoscopio di punti di osservazione che si rincorrono scanditi dalla musica, e dal tempo, della sua scrittura. È il Ragtime di una New York che sta perdendo la sua innocenza, con il singulto sincopato di chi non sa come fare i conti con la propria metamorfosi è che si prepara a battezzare il ventesimo secolo come capitale del mondo. È la marcia epica, come una maledizione biblica, dell'esercito nordista nelle vene della Georgia e delle Caroline, che tutto brucia e tutto calpesta, dove la grande protagonista è la guerra e le sue voci, le sue urla. La marcia di Sherman che vede nel Sud l'infamia del tradimento e non c'è perdono e neppure redenzione. È una guerra dove si vince solo nella carta, quella Costituzionale, perché alla fine perdono tutti. È quella guerra civile è la cicatrice che l'America si porta sulla pelle ogni giorno che Dio manda in terra e fa male al primo cambio di tempo o di stagione. La Marcia è un predatore che ragiona solo per strategia, o cosi la vede l'ufficiale medico sudista che nel sangue e nella storia deve avere gli stessi cromosomi del personaggio totem dei romanzi di Faulkner: «Immaginiamo un grande corpo segmentato che si muove contraendosi e dilatandosi a una velocità di diciotto o venti chilometri al giorno, una creatura con centomila piedi. È tubolare nella sua essenza e si aggrappa con i tentacoli alle strade e ai ponti che percorre. Mette fuori come antenne i suoi uomini a cavallo. Consuma tutto ciò che trova sulla sua strada. È un immenso organismo, questa armata, con un piccolo cervello. Questo non può che essere il generale Sherman».

Doctorow è la musica ossessiva dei fratelli Collyer, Homer che non può che narrare al mondo al buio, come una leggenda, come un mito e Langley che si affanna a fagocitare il mondo, collezionando ogni pezzo, ogni notizia, ogni frammento, fino a sommergere ogni angolo della casa di merce di scarto, con la voracità di chi vuole fagocitare tutto e raccontare tutto, ossessionato dalla ricerca del giornale assoluto, perfetto. Ecco la voce di Homer, che in Homer & Langley racconta e spiega.

«Il principale progetto di Langley era la raccolta dei giornali allo scopo ultimo di creare un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno. Era un'impresa colossale, che lo teneva occupato parecchie ore al giorno. Correva fuori a comprare tutti i giornali del mattino, e più tardi quelli della sera, e poi c'erano i quotidiani finanziari, le pubblicazioni erotiche, quelle che trattavano dei vaudeville e dei fenomeni da baraccone, e così via. Voleva fissare la vita americana in un'unica edizione, quello che definiva il giornale di Collyer senza data, eternamente attuale, il solo giornale di cui la gente avrebbe avuto bisogno».

È l'America degli anni '30 e della Grande Depressione, che porta a fare i conti con tutte le crisi che sono arrivate dopo, come se il '29 e la sua follia fosse solo un autobus che passa ogni tanto e la risposta resta sempre la stessa: quella pulsione ad aggrapparci alle cose per frantumare le nostre paure. O ancora peggio, come accade ne La fiera mondiale , dove c'è tutta la presa per i fondelli che il potere mette in piazza. È ancora il racconto della grande crisi, ma questa volta con gli occhi di un bambino che si muove tra gli stand dell'Esposizione Universale, come se una pacchiana fiera di tutti i Paesi del mondo potesse distrarci dal resto. È il resto è sempre sopravvivere.

È la danza finale tra il certo è l'incerto, tra il vero è il verosimile che ci incanta ne La coscienza di Andrew , dove noi siamo solo ciò che raccontiamo agli altri e per quanto si cerca di essere attendibili e perfino onesti con le ricostruzioni del nostro cervello resta indelebile quella sensazione di essere soltanto degli inguaribili impostori.

Questo è stato lo sguardo di un figlio di ebrei russi che non ha mai perdonato all'Europa le sue inquietudini e la capacità di non vedere mai quello che davvero accade, anche quando l'orrore ti sbatte in faccia. È lo sguardo di un uomo che ha cercato, voluto, essere americano, ma anche qui non a occhi chiusi. L'America l'ha guardata negli occhi, senza cercare verità assolute, ma raccontandola sedendosi all'incrocio del tempo. Doctorow non ha il cinismo di Philip Roth e neppure l'apocalisse di Don De Lillo, forse per questo qui da noi non ha avuto lo stesso successo. Non giudica l'Occidente, probabilmente ne ha sempre avuto compassione. Non lo perdona perché in fondo non lo ha mai davvero giudicato. È soprattutto ha raccontato al mondo una piccola rivelazione: l'America non è una verità assoluta. Non è bianca e nera. Non è blu o grigia. Non è da dannare o da salvare. L'America è una storia, un pensiero, con cui bene o male devi fare i conti, senza prenderti troppo in giro.

L'America è solo una voce che qualcuno ha messo in giro.

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